Prima il piano strutturale di bilancio previsto dal nuovo Patto di stabilità, da inviare a Bruxelles entro il 20 settembre. E con cui il governo vincolerà il Paese a rispettare per sette anni un preciso tetto all’aumento delle spese dello Stato. Poi la manovra per il 2025 da circa 25 miliardi da mettere a punto per la prima volta senza ricorrere all’extradeficit come copertura. Contando, dunque, solo sulla spending review, la sempre invocata revisione delle agevolazioni fiscali ed eventuali nuove tasse o aumenti di entrate ottenuti per altra via. Quest’anno il rientro dalla pausa estiva è più complicato del solito per l’esecutivo. Ma soprattutto per il ministro Giancarlo Giorgetti e i tecnici del Mef. La riforma delle regole fiscali europee approvata all’inizio dell’anno con il sì di Giorgetti e senza i voti della sua maggioranza cambia il calendario delle politiche di bilancio. E soprattutto impone una programmazione di lungo periodo, spazzando via la possibilità di proporre bonus e misure una tantum.

Nel Piano strutturale un tetto alle uscite per sette anni – A breve il consiglio dei ministri dovrà approvare il nuovo documento cardine su cui al ministero si lavora da luglio: il Piano nazionale strutturale di bilancio, che dovrebbe di fatto sostituire la Nota di aggiornamento al Def. Lì andrà indicato il percorso della spesa primaria netta (sottratti cioè gli interessi, le uscite legate al ciclo economico e quelle legate a programmi Ue) previsto dal governo negli anni successivi e compatibile con una progressiva riduzione del rapporto debito/pil sulla base della “traiettoria tecnica” indicata in via riservata da Bruxelles a giugno. È un passaggio decisivo visto che la traiettoria della spesa non potrà poi essere modificata di anno in anno – salvo che in circostanze eccezionali o in caso di cambio di governo. Visto che il Piano va sottoposto al Parlamento e presentato alla Ue entro la terza settimana di settembre, il varo è atteso non più tardi dell’8. Gli spazi di manovra sono pochi: l’Italia è sotto procedura di infrazione per deficit eccessivo e se anche – come spera Giorgetti – otterrà l’allungamento a sette anni del piano di rientro in cambio di impegni su investimenti e riforme, compresi quelli del Pnrr, sarà comunque tenuta a mettere in campo una stretta da 13 miliardi annui.

Il compito è impegnativo: la spesa pubblica primaria italiana, pur ammontando alla cifra monstre di oltre 1000 miliardi l’anno, è ben difficile da comprimere. A maggio l’ex Ragioniere generale dello Stato Biagio Mazzotta, audito in Parlamento, ha spiegato che ormai da anni le leggi di Bilancio incidono solo sulla “variazione al margine“, mentre ben l’81% – circa 700 miliardi tra spese correnti e in conto capitale – se ne va per oneri inderogabili. Cioè stipendi dei dipendenti pubblici, pensioni e altre prestazioni sociali, sanità e istruzione, incentivi agli investimenti. La voce più “pesante” sono le pensioni, che nel 2023 hanno assorbito quasi il 30% della spesa primaria. Ma a meno di interventi politicamente dolorosissimi quella posta può essere ridotta anch’essa solo al margine. Innanzitutto bloccando le indicizzazioni come il governo ha già fatto con le ultime due manovre. Poi archiviando le promesse di “cancellazione della Fornero” e la cosiddetta Quota 41, cioè l’opzione di lasciare il lavoro appena raggiunti i 41 anni di contributi, miraggio già rinviato a fine legislatura.

In manovra nuovi risparmi sulle pensioni – Non a caso sul tema pensionistico tensioni e distinguo all’interno della maggioranza si sono fatti sentire già a cavallo di Ferragosto in vista della legge di Bilancio, da scrivere entro metà ottobre una volta fissati i paletti di spesa. Forza Italia continua a puntare sull’aumento delle pensioni minime a 1000 euro ma come “obiettivo di legislatura” (tradotto: l’anno prossimo non se ne parla). Dalla Lega è arrivata la proposta di una Quota 41 “light”, calcolando l’assegno interamente con il metodo contributivo. Ne deriverebbero trattamenti talmente decurtati – del 20% in media – da scoraggiare gran parte degli aspiranti pensionati, come è già successo quest’anno con la nuova Quota 103 chiesta al momento solo da 7mila persone, stando agli ultimi dati Inps. Di lì la spericolata proposta – copyright Durigon – di rimpolpare il reddito dei pensionati obbligando chi ancora lavora a trasferire il 25% del Tfr a un fondo di previdenza integrativa. È poi notizia delle scorse ore che sarebbe allo studio un allungamento per tutti del periodo (“finestra mobile“) che passa tra la maturazione dei requisiti per la pensione anticipata e la riscossione del primo assegno: un altro modo per risparmiare.

Il punto è che stavolta la manovra va finanziata senza metter mano al deficit, quindi trovando coperture adeguate. Impresa da far tremare i polsi. Giorgia Meloni ne discuterà al vertice con gli alleati Matteo Salvini e Antonio Tajani in agenda per venerdì. I leader sanno che solo per le “politiche invariate”, cioè per confermare le misure finanziate al momento solo per il 2024, servono come è noto circa 20 miliardi. Le risorse (4,3 miliardi) necessarie per confermare l’Irpef a tre aliquote sono in parte già assicurate: 3,5 miliardi arriveranno dall’eliminazione dell’Aiuto per la crescita economica, poco meno di 400 milioni sono attesi dall’imposta minima globale del 15% sulle multinazionali. Ballano “solo” altri 400 milioni. Ma il resto è un’incognita, a partire dagli 11 miliardi necessari per prorogare il taglio del cuneo fiscale, bandiera a cui Giorgetti ha chiarito di non voler rinunciare in nessun caso. In bilico anche la detassazione del welfare aziendale, la decontribuzione per le lavoratrici madri, il taglio del canone Rai, la card Dedicata a te, l’anticipo pensionistico con Ape sociale e Opzione donna, già depotenziata. Oltre al credito di imposta per la Zes unica del Mezzogiorno. In più vanno considerate anche le spese indifferibili e il rinnovo dei contratti della Pa.

In attesa dei dati sulle imposte versate a luglio dagli autonomi e sulla quinta rata della rottamazione, le entrate superiori al previsto emerse dall’assestamento di bilancio 2024 non aiutano in alcun modo, visto che sono andate di pari passo con un aumento delle spese a partire da quelle per il Superbonus. È al lumicino, insomma, la possibilità di trovar spazio per altri interventi discrezionali come l’alleggerimento dell’Irpef per chi guadagna oltre 50mila euro, sponsorizzato da tempo dal viceministro con delega al fisco Maurizio Leo. Che continua però a sperare di trovare le risorse grazie al concordato preventivo biennale con il fisco offerto alle partite Iva a prezzi di saldo.

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