Nel dibattito sul ruolo dei social network nel dibattito pubblico, riaperto con i casi di cronaca, torna insistentemente una storia in particolare: il laptop di Hunter Biden. In piena campagna elettorale, negli Stati Uniti la vicenda è portata dai repubblicani a emblema della compromissione di Big Tech e delle principali aziende della Silicon Valley con il partito democratico e con l’amministrazione Biden. Nel 2022 i repubblicani hanno aperto una commissione di inchiesta per ricostruire la vicenda nel dettaglio. Il titolo della commissione è evocativo: “weaponisation of the Federal Government”, letteralmente la “strumentalizzazione del governo federale a fini politici” (si indaga anche sulla stagione del Covid).
Le audizioni e le indagini della Commissione sono ancora in corso. Pur non essendo ancora arrivata a individuare la “pistola fumante” di un presunto “complotto” tra democratici e governo federale per censurare le notizie a favore di Biden e dei democratici, tuttavia ha fatto luce su alcune pratiche arbitrarie dai due principali social network, Facebook e Twitter, in passato nel gestire i contenuti pubblicati sulle loro piattaforme, limitandone la diffusione d’imperio e quindi, secondo alcuni, la limitando libertà di espressione. In questo senso, la storia del laptop di Biden è tra quelle vicende ha contribuito a spingere le aziende che gestiscono social, Meta in particolare, a modificare le politiche di moderazione dei contenuti pubblicati sulle loro piattaforme. Ecco cosa è
Il portatile dimenticato e i file compromettenti– Ad aprile del 2019 Hunter Biden porta il suo portatile a riparare in un negozio specializzato del Delaware. E lo dimentica lì. Il proprietario del negozio, dopo aver tentato ripetutamente di contattare Biden, accede ai contenuti del disco rigido del computer, vede email in cui si parla del candidato presidente democratico Joe Biden, foto e video in cui Hunter fuma crack e mostra una pistola, e decide di allertare l’Fbi.
I federali ritirano il portatile nel dicembre del 2019. Ma il proprietario del negozio del Delaware aveva fatto una copia dei file, che consegna a Robert Costello, avvocato personale del consigliere di Donal Trump Rudolph Giuliani, che ne entra in possesso nell’agosto del 2020. Giuliani fornisce il contenuto dell’hard disk di Hunter Biden al New York Post, che pubblica in prima pagina la storia il 14 ottobre. L’articolo, oltre a mostrare le foto compromettenti, sosteneva che le email provassero accordi di corruzione tra Hunter, il padre Joe e una società ucraina Burisma.
Quando la storia comincia a circolare sui social, il social Twitter, allora guidato da Jack Dorsey, decide di rimuovere il contenuto e tutti i post che lo citavano dalla piattaforma. Anche Facebook interviene, limitando fortemente la visibilità del contenuto in attesa del responso del suo dipartimento di fact-checking. Allora si metteva in discussione la stessa esistenza del laptop di Hunter Biden e di quelle foto, non essendoci nessun altro media a confermare la notizia ed essendo la fonte politicamente orientata in favore di Trump.
Da allora, l’esistenza del dispositivo e l’autenticità di parte del materiale in esso contenuto sono stati confermati da diversi media. Non le supposizioni del Post sui legami inconfutabili tra i contenuti di quel computer e presunti affari corrotti all’estero dell’attuale presidente Joe Biden.
Facebook e Twitter ammettono di aver sbagliato – Mark Zuckerberg, ceo della casa madre di Facebook e Instagram, Meta, ha ricostruito la scelta operata in quell’occasione nella lettera inviata alla Commissione giustizia della Camera Usa il 26 agosto di quest’anno: “L’Fbi ci aveva avvertito di una potenziale operazione di disinformazione russa sulla famiglia Biden – scrive Zuckerberg –. Quando abbiamo visto un articolo del New York Post che riferiva di accuse di corruzione che coinvolgevano la famiglia dell’allora candidato democratico alla presidenza Joe Biden, abbiamo inviato l’articolo ai fact-checker per una revisione e lo abbiamo temporaneamente declassato in attesa di una risposta”.
La notizia era vera, ed è stata parzialmente confermata anche dal Washington Post, New York Times e dalla rete tv Cbs. Nel laptop non c’erano prove che collegassero Joe Biden ad affari torbidi, come suggeriva il primo articolo del New York Post imbeccato da Giuliani, ma c’erano abbastanza foto e video da portare, quest’anno, la giuria di un tribunale a giudicare Hunter colpevole di aver mentito nella sua richiesta di porto d’armi quanto all’uso di droghe. La giuria ha dichiarato Biden colpevole di tre reati, la sentenza sarà pronunciata tra qualche settimana.
Nella sua lettera al Congresso, il ceo di Meta ha scritto che quella decisione della sua azienda fu sbagliata: “Da allora è stato chiarito che non si trattava di disinformazione russa e, col senno di poi, non avremmo dovuto declassare la storia”. Meta assicura anche di aver cambiato le sue policy in modo da non ripetere più un errore simile. Anche gli ex manager di Twitter, che nel 2022 è stato acquisito da Elon Musk ed è diventato X, hanno ammesso che cancellare la storia del laptop di Biden è stato un errore, e si sono scusati davanti alla commissione Usa nel 2023.
“Pressioni dello staff di Biden”: il ruolo di Blinken e dell’ex Cia Morrell– I repubblicani ritengono di aver acquisito le prove del fatto che quelle decisioni delle piattaforme social siano state prese dietro pressioni da parte dell’Fbi e della Cia, su ordine del comitato di Joe Biden e in particolare dell’attuale segretario di Stato Antony Blinken.
Dopo la pubblicazione della notizia del New York Post, infatti, il 14 ottobre 2020, 51 ex funzionari dell’intelligence Usa all’epoca (da ex funzionari) avevano firmato una lettera sostenendo che la storia del laptop mostrava “tutti i classici segni di un’operazione di influenza russa”. Due fonti hanno confermato l’anno scorso al New York Post che l’Fbi aveva verificato l’autenticità del computer portatile già nel novembre del 2019.
La Commissione giustizia della Camera Usa, a maggioranza repubblicana e presieduta dal senatore dell’Ohio Jim Jordan, ha raccolto dichiarazioni che confermano che c’è stata una telefonata da parte di Antony Blinken all’ex vice direttore della Cia Michael Morell (lo è stato fino al 2013) in cui Blinken bollava la notizia come “disinformazione russa” e dava così impulso per la lettera dei 51 funzionari dell’intelligence. Secondo la ricostruzione, Blinken avrebbe detto: “Pensiamo che Trump attaccherà Biden su questo tema durante il dibattito di questa settimana. Vogliamo dargli un argomento da usare in risposta”. Lo stesso
Morell ha dichiarato davanti alla Commissione che la telefonata di Blinken ha “innescato” la sua intenzione di scrivere la dichiarazione.
La commissione guidata dai repubblicani ha provato quindi l’attivismo dello staff di Biden per limitare l’impatto politico negativo dello scoop riguardante suo figlio, a poche settimane dalle elezioni, ma non il diretto interessamento di funzionari del governo federale in carica. Sia Twitter che Meta hanno smentito di aver ricevuto dirette pressioni da parte del governo o di organi federali, ma giustificano la loro decisione censoria con il contesto: la campagna elettorale del 2020 era dominata dagli allarmi sulla “disinformazione” russa per screditare il processo elettorale, il contenuto era ritenuto poco affidabile e nel dubbio è stato rimosso.
Poco dopo ci sarebbe stato l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 e il tema della rimozione di account e contenuti sarebbe arrivato fino a Donald Trump, escluso da tutte le piattaforme social americane con l’accusa di aver incitato alla violenza.