Dopo i reportage del 2016 e 2017 sulle condizioni dei migranti in transito dalla Grecia, ilfattoquotidiano.it torna a raccontare le condizioni nei centri sull’isola di Lesbo. L’autrice di questo resoconto ha da poco svolto un periodo di volontariato di alcuni mesi sull’isola.

Tra la costa di Lesbo e quella della Turchia c’è una distanza che può variare fra i 9 e i 20 chilometri, a seconda del punto di partenza. Dal porto di Mitilene, città principale dell’isola, quando l’Egeo non rilascia la sua bruma salina, la Turchia si vede benissimo. Si vedono le piccole città aggrappate alla costa, si vede la terra brulla. Si vedono le macchie verdi di vegetazione. Passano sempre grandi navi che trasportano merci o persone.

A volte, a percorrere questo tratto di mare, o a provare a farlo, sono imbarcazioni, spesso di fortuna, di migranti. Molti di loro, per effetto dei respingimenti da parte della Guardia costiera greca, sono stati più volte rimbalzati da una costa all’altra. In alcuni casi, secondo quanto riportato anche da un’inchiesta della Bbc, poi diventata un documentario (Dead Calm), i respingimenti hanno coinvolto anche chi era già riuscito ad approdare sulla costa greca e così ad entrare nell’Unione europea. Di solito però i respingimenti avvengono in mare aperto, sotto gli occhi indifferenti di Frontex e dell’Ue.

I migranti vengono fatti salire su imbarcazioni della guardia costiera ellenica e riportati in acque turche. Qui, vengono abbondonati in mezzo al mare, a volte su gommoni o scialuppe di salvataggio. A volte le imbarcazioni vengono invece agganciate per essere trainate di nuovo in acque turche. Nel frattempo, ai migranti vengono sequestrati cellulari o altri oggetti personali. Pare che gli uomini della guardia costiera indossino passamontagna o comunque operino a volto totalmente coperto. Tutto ciò avviene con il benestare del governo greco, che nega ogni responsabilità e si vanta semmai del calo degli arrivi sulle sue isole.

Secondo l’Aegean Boat Report, che si occupa di analizzare e incrociare i dati sulle rotte nel Mar Egeo, la Turchia parla dei salvataggi nelle sue acque territoriali come risultato di “malfunzionamenti ai motori” delle imbarcazioni di migranti e non come frutto dei respingimenti da parte della Grecia. Durante la fase di traino può anche succedere che le barche cariche di migranti si capovolgano. Le morti causate da questa pratica spesso non hanno colpevoli accertati, perché secondo la Commissione Europea dovrebbe essere la Grecia stessa ad indagare sui suoi crimini.

Del resto, dopo l’ondata di migranti scatenata dalla guerra in Siria, Ue e Turchia hanno siglato un accordo che prevede il respingimento per mare e per terra di tutti i migranti, a prescindere dallo stato di avanzamento della domanda di asilo, ancora prima di qualunque tipo di registrazione. Se il respingimento non avviene in mare, si rimane così bloccati per mesi e mesi nelle isole greche in attesa che la pratica venga elaborata. Scappare da guerre, carestie, danni ambientali e povertà è, o dovrebbe essere, un diritto inalienabile ma lo è sempre più di rado.

Le isole dell’Egeo nordorientale in cui si concentra il maggior numero di pushback sono Samos, Lesbo e Chios. A luglio 2024, 139 imbarcazioni con 3833 persone sono arrivate sulle coste delle isole dell’Egeo. 198 barche con a bordo 5126 migranti sono state fermate o soccorse dalla guardia costiera turca. Di queste, il 25,6% era stato respinto dalla guardia costiera greca. Nell’ultimo anno, le persone respinte dalle autorità greche sono state 23.106.

I numeri aiutano ad definire la dimensione del fenomeno ma restano numeri. Dietro ogni cifra però ci sono uomini, donne e bambini che tentano la traversata a rischio della vita. Quelli che ci riescono, a Lesbo vengono portati nel Ccac (Closed and Controlled Access Camp). Costruito in seguito all’incendio che nel 2020 distrusse l’hotspot di Moria, il nuovo campo si trova a Mavrovouni, località a pochi chilometri da Mitilene. Il campo sorge sul mare. È una distesa bianca, polverosa, accecante, di container tutti uguali. Il caldo è asfissiante. Non c’è ombra, l’acqua spesso non è disponibile e non è potabile, a volte è proprio contaminata. I pasti e l’assistenza medica variano a seconda dallo status legale di ogni migrante. Per cui a volte non si riceve alcun pasto e non è possibile essere visitati da un medico.

Ed è qui che diventa cruciale il ruolo che ha svolto e continua a svolgere l’ecosistema di ong e volontari sorto intorno ai campi. La struttura che ospita queste ONG si chiama Paréa Lesvos. Riunisce circa 11 organizzazioni che forniscono pasti, bevande, assistenza legale, supporto psicologico, educazione ed attività sociali. Fare volontariato a Paréa significa entrare in una comunità, come il nome stesso, in greco, suggerisce. Tutti i servizi forniti vengono registrati e diventano report mensili sulla situazione a Paréa, che a sua volta aiuta a fornire un quadro generale sulla condizione dei migranti sull’isola.

A Paréa i numeri ritrovano finalmente un volto. Circa la metà dei visitatori sono uomini adulti. I restanti quasi equamente ripartiti fra donne e bambini. Per questi ultimi in particolare, oltre allo Women Space, vengono organizzate attività specifiche. Qui può entrare chiunque. I cancelli aprono alle 10 e chiudono alle 16 circa e i volontari sono chiamati a fare qualsiasi cosa. Si impara tutto in pochi minuti. Esclusi da ciò sono ovviamente i servizi di assistenza psicologica e legale, forniti da esperti. Tutti sono pronti a spiegare e rispiegare come gestire qualsiasi tipo di incombenza o situazione. Ci sono rubinetti in ogni angolo e boccioni d’acqua fresca per tutti. C’è la caffetteria che ogni giorno distribuisce caffè e bevande fresche. Dalle 13 in poi si distribuisce anche il pranzo, un pasto completo con frutta e pane.

Nella frenesia della preparazione dei pasti forniti da un’altra Ong dell’isola, si balla, si canta. I visitatori in fila chiedono di mettere un brano afgano o siriano. Tutto è colorato e tappezzato da graffiti con parole di pace e speranza:. si cerca di non farla morire. Al Paréa Club i visitatori possono usufruire di giochi da tavolo, strumenti musicali. C’è chi fa l’uncinetto, chi dipinge, chi si ferma soltanto su una delle sedute in pallet per usare il Wi-Fi e chiamare i parenti a gran voce. Qualcuno vuole assolutamente che anche tu saluti sua madre che è rimasta a Gaza.

La musica è un elemento fondamentale in ogni spazio di Paréa. Nello Women Space donne e bambini vengono accolti in uno spazio intimo e colorato, riservato solo a loro. Qui si può ballare, farsi una maschera al viso, cucinare un piatto tipico del proprio Paese. Fare braccialetti e collane, gettonatissimi soprattutto fra le giovani visitatrici. Si può allattare libere da sguardi indiscreti. Fare un pisolino, finalmente all’ombra. Per chi vuole una bici o ripararne una c’è il Makerspace. C’è la Computer Room per usufruire di computer o di corsi base di informatica. Nella sala principale di Paréa si può giocare alla playstation, a ping pong, prendere uno dei libri a disposizione (in farsi, arabo, inglese, francese, amarico, somalo) o partecipare a corsi di inglese o tedesco.

Collective Aid distribuisce vestiti. Il Free Shop di Leave No One Behind dà sapone, dentifricio, spazzolino da denti. La stessa ONG staziona all’ingresso di Paréa con un servizio lavanderia attivo tutti i giorni. Sempre all’ingresso c’è il barbiere messo a disposizione da Doro Blanke. Un cannicciato circonda lo spazio riparato dal sole, si sente il ronzio della macchinetta che si muove sulle teste degli avventori. Nello spazio esterno si può giocare nei campi di pallavolo e pallacanestro. C’è un bellissimo giardino con posti a sedere e un orto rigoglioso dal quale i migranti possono raccogliere verdure ed erbe aromatiche. Ci sono giornate di festa in cui si distribuiscono pasti sfiziosi, si mette musica e si balla tutti insieme, si fa body painting e si organizzano giochi e attività per tutti.

Tutto questo è per quelle persone che vengono ridotte a pratiche in attesa di essere elaborate. Molti fanno richiesta d’asilo e l’attesa può durare anche molti mesi. Le giornate trascorse a Paréa servono a fornire loro servizi di base e per ritrovare senso d’appartenenza. Per condividere un percorso con qualcuno al quale davvero importa qualcosa e per non sentirsi disumanizzati. Per creare, per non impazzire, per trovare persone disposte a sorriderti e ad accoglierti. Ci vuole energia, delicatezza ed equilibrio. Qualcuno, mentre gli prepari un caffè, vorrebbe parlarti di come è stato abusato dai soldati in Iraq quando era bambino. Qualcun altro di come è stata sterminata la sua famiglia. Qualcuno del viaggio infinito fatto per arrivare qui. Ci sono cicatrici su molti corpi e in alcuni casi arti mancanti.

Qualcuno ti sorride sempre amabilmente e non dice mai nulla. Qualcun altro un giorno è serio e scontroso e il giorno dopo ti aiuterà a fare qualcosa in uno degli spazi comuni. Durante una partita a carte non vedono l’ora di insegnarti i numeri in arabo e ridono tantissimo della tua pronuncia. Si improvvisano traduttori per dare informazioni a qualcun altro perché il tuo cellulare smette di funzionare e tu non sai parlare in farsi. Ti spiegano come funziona una legge nel loro paese perché hanno studiato giurisprudenza. E poi, finalmente, ogni tanto qualcuno ti sventola davanti alla faccia il suo nuovo documento, con cui molti vorrebbe andare in Germania, Italia, Lussemburgo, Svezia. Ci si scioglie in abbracci, applausi e danze propiziatorie.

Quando si torna a Mitilene ci si può ritrovare tutti, volontari e visitatori, sulla stessa spiaggia nel tentativo di rinfrescarsi. I pochi che sanno nuotare cercano di insegnare agli altri come iniziare. I siriani agli afgani, gli etiopi agli iracheni. Qualcuno resta vestito di tutto punto e guarda il mare e resta lì per ore. Tutte queste persone costituiscono un’umanità spezzata, ripudiata e maltrattata. Lesbo vorrebbe essere un’isola turistica, ma la verità è che fa parte della rotta balcanica. La popolazione di questo luogo è costituita anche dai migranti. Alcuni greci a volte si mostrano stupiti o indignati. Ma sempre qualcuno di loro ha fondato alcune di queste Ong.

Nel centro sociale di Mitilene vengono proiettati praticamente ogni sera film e documentari su migrazioni, diritti umani e internazionali. Se quindi la percezione delle presenze sull’isola è disomogenea, a Lesbo in realtà si lavora ogni giorno per i diritti dei migranti. Si condivide lo spazio di un’isola fra volontari e migranti da tutto il mondo. Ci si unisce per un periodo di vita per uno scopo comune: consentire a tutti gli uomini, le donne e i bambini di viaggiare liberamente e alleggerire parte di questo percorso. I volontari a volte si chiedono se e quanto il lavoro fatto abbia senso e possa portare a un effettivo, seppur minimo, cambiamento.

Concentrarsi sugli obiettivi di ogni giorno aiuta a ritrovare una visione d’insieme. Il senso di tutto questo va cercato nella donna che si batte la mano sul cuore e ringrazia per tutto ciò che è stato fatto, ché domani parte per la Germania però non dimentica chi l’ha fatta sentire accolta. Nella donna che ti ringrazia perché per un’ora hai giocato con suo figlio e lei ha potuto finalmente guardarsi allo specchio, riposare e chiacchierare con altre donne. Nella felicità dei ragazzini che ti chiedono di prendere la tua bicicletta per un po’ e girare intorno a Paréa per godersi la velocità, anche se la bici è vecchia e scassata. Nella gratitudine di un padre rimasto solo con due bambini che ogni giorno ti chiede un frutto in più a testa per loro perché fa troppo caldo. Nel ragazzo che gioisce perché ti ha battuto a scacchi ed è pur sempre una vittoria.

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