Sono, quelli che oggi corrono in America Latina, tempi duri per la democrazia. Forse i più duri dai plumbei anni della “Operazione Condor”. E questo non solo, anzi, non tanto, per le notizie che, tra farsa e tragedia, giungono in questi giorni dal Venezuela di Nicolás Maduro, quanto per quel che si muove proprio là da dove più alte ed indignate si vanno levando, in queste ore, le grida di scandalo per la frode elettorale (la tragedia di cui sopra) che l’erede ed apostolo di Hugo Chávez va sbattendo in faccia al mondo intero, da par suo argomentandola (e qui sta la farsa) con legalistiche “verifiche” e con denunce di cosmici complotti che – con le sole eccezioni dei più cavernicoli anfratti d’una sinistra decrepita – fanno semplicemente ridere i polli.

No, i brogli elettorali in Venezuela non sono, in fondo, che un déjà vu o, per continuare con i francesismi, un fait accompli, l’ennesima, beffarda e maramaldesca pugnalata inflitta a una democrazia che già era – e da non pochi anni – soltanto un cadavere o, meglio, un morto ammazzato. Quando, democraticamente parlando, sia esattamente passato a peggior vita il “nuovo Venezuela” nato sulle ceneri dell’ormai ossificato e corrotto “punto fijo” (un inamidato sistema di alternanza tra i conservatori social-cristiani del Copei ed i socialdemocratici di Acción Democrática) non è facile dire. Anche perché, fatalmente contaminata dal caricaturale culto della personalità del suo fondatore, la democrazia in salsa chavista a morire ha cominciato in pratica subito. A questa lunga agonia, il blog che andate leggendo ha dedicato, negli ultimi tre lustri, almeno una dozzina di post. Ne ripropongo qui, via link, per quanti fossero interessati al tema, quello che – datato 2 agosto del 2017 e significativamente intitolato “La frode si è conclusa. Comincia lo Stato di polizia” – forse meglio descrive quello che fu, probabilmente, il punto di passaggio da una ormai moribonda democrazia ”ibrida”, a una dittatura a tutto tondo.

Per capire da dove venga oggi la minaccia alla democrazia che ancora, sia pur malamente, sopravvive nel continente, occorre ovviamente guardare dalla parte opposta, in direzione degli autoproclamati antipodi del Venezuela. O, più esattamente, all’Argentina di quel Javier Gerardo Milei che, al classico grido di “viva la libertad, carajo!”, va in questi giorni additando la tragedia venezuelana come l’inevitabile approdo del “socialismo”, anzi, del “collettivismo”, come Milei – pedestremente usando il lessico d’uno dei più osannati economisti della cosiddetta scuola austriaca, Friedrich Hayek – ama definire tutti coloro che non seguano, nella loro più estrema versione, le teorie neoliberali.

Giusto per la precisione: ecco l’intero elenco di questi satanici “collettivisti”, così come il medesimo Milei li ha descritti nel discorso che, con messianici accenti, tenne lo scorso gennaio in quel di Davos, in quella che lui stesso ed i suoi seguaci non si stancano di definire, con ammirevole modestia, “una storica, magistrale lezione di economia”. “…Comunisti, socialisti, socialdemocratici, democristiani, neokeynesiani, progressisti, populisti, nazionalisti e globalisti”. Tutti allo stesso modo “cattivi”. Si tratti di Stalin, Pol Pot, Olaf Palme, Aldo Moro, Kim Il Sung, o di John Maynard Keynes, l’economista inglese che Milei considera la propria luciferina nemesi, tutti destinati al medesimo, profondissimo girone dell’inferno neoliberale.

Venendo al punto: più o meno nei giorni in cui, con altissime tonalità, in diverse parti del mondo denunciava la frode di Maduro contemporaneamente annunciando la Buona Novella neoliberale, Javier Milei andava anche, con altrettanta chiassosa ostentazione, cancellando in Argentina i ricordi di altri crimini. Più esattamente: andava smantellando, una dopo l’altra tutte le istituzioni che, a partire dal “Nunca más” – il processo che, nel 1985, denunciò e, almeno in parte, punì i crimini commessi, tra il 1976 e il 1985, durante la dittatura militare – cercano, nei limiti del possibile, di ripristinare verità e giustizia. Su tutte la Unidad Especial de Investigación de la Desaparición de Niños como Consecuencias del Accionar del Terrorismo de Estado (UEI), il gruppo di specialisti che andavano indagando sui destini dei bambini che, durante la dittatura, vennero strappati alle madri morte sotto tortura e riassegnati, in forma di adozione, a conoscenti ed amici dei militari al potere. Una storia orrenda, a suo tempo splendidamente raccontata da un film – “La historia oficial”, premiata con un Oscar.

Tutti provvedimenti, quelli di Milei, in assoluta – e, per l’appunto, orrenda – coerenza con quella che, con un termine molto alla moda, potremmo chiamare la “cancel culture” neoliberale. O, più specificamente, con la visione della storia e con la idea di “libertad” (con tanto di “carajo!” , esclamazione che qui traduco in un molto edulcorato “perdirindina!”) che muove il presidente argentino. Ed anche gesti che non vantano – se non come puri artifizi polemici – relazione alcuna con la spesso deplorevole contaminazione politica (vedi qui lo scandalo che coinvolse la frazione delle Madri di Plaza de Mayo, diretta da Hebe de Bonafini) che negli anni del kirchnerismo tra luci ed ombre caratterizzò la gestione della difesa dei diritti umani. No, Milei va abbattendo le strutture generate dal “Nunca más – strutture che, è bene ricordarlo, sono anche la vera architrave della ritrovata democrazia argentina – semplicemente perché, per lui, in Argentina non c’è mai stata una dittatura militare. C’è stata soltanto una guerra civile nel corso della quale sono stati, da entrambi i lati, commessi degli “eccessi”.

Questo Milei ha detto e ripetuto. E lo scorso 9 di luglio, anniversario della indipendenza patria, ha teatralmente ribadito il concetto salendo insieme alla vicepresidente Victoria Villaruel – anch’essa una fervente negazionista – su uno dei carri armati della ripristinata parata militare. Occorre ammetterlo. Vedere il presidente che si è aperto la strada verso al Casa Rosada agitando in stato di trance una motosega spuntare dalla torretta d’un enorme “tanque” accanto a una mitragliatrice con tanto di nastro di proiettili e pronta all’uso, è stata una immagine non propriamente tranquillizzante per quanti ancora abbiano a cuore la democrazia e la convivenza pacifica. Soprattutto se si considera che si tratta di immagini in assoluta sintonia con la fede neoliberale del presidente. O, considerate le circostanze, del “panzer-presidente” che da otto mesi governa l’Argentina.

Non fu forse proprio Friedrich Hayek, per l’occasione ospite di Augusto Pinochet, a dichiarare in una intervista con El Mercurio, nel 1981, che una dittatura che guarantisce piena libertà economica è preferibile a una democrazia che quella libertà pretende limitare? E non furono proprio i Chicago Boys di Milton Friedman, altro grande profeta del neoliberalismo, a sperimentare in carne viva le tesi del loro maestro, negli anni della dittatura militare cilena?

Furono loro. E, in aggiunta, molto opportuno è considerare, come il panzer-libertarismo di Milei si nutra – al di là di Ludwig von Mises, Hayek e Friedman, – soprattutto delle molto più estreme teorie di Murray Rothbard, l’inventore del termine “anarco-capitalismo”, che ben oltre l’elogio dei gorilla latinoamericani, terminò la sua deriva a destra tra le braccia di David Duke, il Gran Dragone del Ku Klux Klan che agli inizi degli anni ’90 senza successo tentò l’assalto alla Casa Bianca.

Come una buona parte dei neoliberali, il “panzer-libertario” Milei propugna la distruzione dello Stato, nella sua versione assistenziale, ma nel contempo se non proprio esalta, senza problemi accetta – purché si dispieghi in difesa della proprietà – il terrorismo di Stato. Quanti oggi, con molte buone ragioni, guardano con sdegnata preoccupazione al Venezuela, bene faranno a prepararsi al peggio. Perché non solo a Buenos Aires, ma in tutto (o quasi) il gran calderone latino-americano vanno, di questi tempi, dove ancora batte il cuore della democrazia, ribollendo nuove sventure.

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