A voler fare della facile ironia, si potrebbe scrivere che nell’Afghanistan dei talebani i pugni e i calci legittimi sono solo quelli dati dalla polizia morale. Battute a parte, la notizia rilanciata dalla Bbc si inserisce in un quadro più ampio di divieti: il governo ha messo al bando le arti marziali miste (MMA). Si tratta – per gli emiri – di una pratica contraria ai principi della sharia, la legge islamica. A confermare la decisione è stato un funzionario, a Tolo News, l’emittente di Kabul: le arti marziali miste sono “troppo violente”.

Da quando i talebani hanno ripreso il potere, sono stati spesso tentati di regalare un’immagine diversa, di essere capaci, seppur rispettando i loro paletti religiosi, di condurre l’Afghanistan oltre l’oscurantismo. Ma dopo le recenti decisioni che hanno privato le donne si potersi esprimere in pubblico, arriva questa ennesima imposizione: che solo in apparenza ha meno impatto sulla società. Le arti marziali miste sono molto popolari tra i giovani in Afghanistan; la Mixed Martial Arts Federation è stata fondata nel 2008, e l’Afghanistan Fighting Championship (AFC) e il Truly Grand Fighting Championship (TGFC) hanno organizzato decine di combattimenti. L’attrazione non riguarda solo i ragazzi: uno dei volti più noti è quello di una dicottenne, Zahra Rezaee, che già quattro anni fa si era unita al National Muay Thai Team e nelle interviste – anche a Tolo News – ha sempre dichiarato che attraverso questo sport intende perseguire i suoi obiettivi, sognando una carriera da professionista.

I talebani già nel 2021 avevano messo al bando i combattimenti, ma l’anno successivo sembravano aver avuto un ripensamento: Ahmad Wali Hotak, uno degli atleti di punta conosciuto con il soprannome di Warrior, tenne una conferenza stampa prima di un annunciato incontro in Russia e al suo rientro, da vincitore, fu accolto in modo positivo da esponenti del governo. L’esempio di Hotak però non ha fatto breccia nei suoi colleghi che, immaginando le conseguenze sul lungo termine delle restrizioni imposte dai talebani in nome della sharia, avevano lasciato il Paese cercando fortuna altrove. Lo stesso Hotak nel 2018 era sopravvissuto ad un agguato in strada: attaccato da cinque persone, a Kabul, era stato colpito con una coltellata alla testa. Aveva avuto la forza di allontanarsi e cercare aiuto, i familiari lo avevano portato in ospedale. Nei sei mesi precedenti Hotak si era allenato al Kainen Mma negli Stati Uniti, per sostenere un incontro a Mosca con Maksim Schekin. Non è stato chiarito se l’aggressione avesse una motivazione religiosa.

Resta un dato, lo sport per molti giovani e ragazze afghane può essere un veicolo di affermazione e riscatto: tra le foto-simbolo delle recenti Olimpiadi di Parigi c’è quella di Kimia Yousofi, la velocista che ha tirato fuori un pezzo di carta a favore di telecamere dove c’era scritto: “Istruzione, sport, un nostro diritto”. Il 9 agosto scorso le Nazioni Unite hanno preso posizione chiedendo alle organizzazioni sportive nazionali e internazionali di adottare misure decisive contro il divieto imposto dai talebani alle donne: “Per quasi tre anni, i talebani hanno impedito alle donne e alle ragazze in Afghanistan di partecipare a tutti gli sport, una inaccettabile abrogazione dei loro diritti, che nessun altro paese impone. Questo divieto fa parte del sistema istituzionalizzato di discriminazione e oppressione di genere e sesso dei talebani, che può costituire crimini contro l’umanità”.

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