Ossuta, consunta, semi cadaverica, psicologicamente perduta dietro i propri fantasmi. La Callas/Angelina Jolie nel film Maria, diretto dal cileno Pablo Larrain – film in Concorso al Festival di Venezia – sembra uno di quei mostriciattoli emersi dai sotterranei di Beetlejuice Beetlejuice di Tim Burton visto ieri. Del resto Larrain è abbastanza intelligente da sapere che il principio di overacting, se ben camuffato dietro un riconoscibile discorso autoriale (per dire, Maria sembra una succursale scenografica/fotografica di El Conde e in parte di Spencer), può portare la critica pregiudizialmente accondiscendente al solluchero.
Perché scavando oltre la ricerca della posa del corpo, la cura delle sopracciglia, gli occhialoni settanta da miope, un’americana con le labbra gonfie, gli occhioni chiari, e un atteggiamento spavaldo alla Joan Collins, non potrebbe echeggiare un’unghia dell’ego narcisismo mediterraneo della Callas nemmeno sotto pesanti dosi del sedativo Mandrax, pillole che La Divina assumeva negli ultimi anni di vita a tonnellate proprio come vediamo in apertura di film. O meglio, Maria si apre con un campo lungo in un interno nel quale appare il cadavere della Callas/Jolie celato in parte dal pesante pianoforte nero continuamente spostato nell’immenso salone con stucchi e affreschi dell’appartamento parigino dove la cantante lirica visse gli ultimi anni di vita assieme a due barboncini e ai tuttofare Ferruccio Mezzadri (interpretato da un claudicante Pierfrancesco Favino) e Bruna Lupoli (un’irriconoscibile Alba Rohrwacher).
La soprano più celebre al mondo si spense così, a 53 anni, il 16 settembre 1977, probabilmente per un arresto cardiaco dovuto ad una consunzione fisica che ebbe il suo inizio fin da quando la Callas cominciò a perdere misteriosamente peso a metà anni cinquanta, contribuendo per molti anche al declino vocale e professionale. Larrain, su imbeccata nei dialoghi di Steven Knight (Allied, Peaky Blinders), non sembra avere un’idea chiara su cosa deve essere la sua Callas.
Laddove la Stewart restituiva una ingenua libertà di ragazzina per la sua Lady D oppressa nelle regole reali in Spencer, qui la donna all’antica nata negli anni venti, sballottata tra mariti ricchi sfondati (Onassis ha la sensibilità di una macchietta hollywoodiana) e i più importanti palchi mondiali della lirica, oscilla tra l’eccentricità della pazzerella (“mi piace il teatro che ho in testa”, dice commentando i sogni/incubi provocati dal Mandrax, come è molto azzeccata l’idea di un’intervista/non intervista da farsi) e una figura museale imbalsamata nello spazio e prosciugata dalla vita alla Lady Lyndon/Marisa Berenson in Barry Lyndon.
Tre capitoli più un epilogo, con la solita contraffazione formale di filmati d’epoca, anzi proprio di pellicole di celluloide con squarci e graffi d’antan, Maria è il biopic che vuole essere tutto – graffiante, storico, esemplare – finendo per non essere nulla, se non l’esibizione nient’affatto melò di una vita invece altamente melodrammatica sbocconcellata tra improvvisi e insensati bianchi e neri. La misura da prendere verso Maria riguarda peraltro anche la mimesi sonora e musicale del “bel canto”, tutta schiacciata su un ovvio playback della Jolie che in alcuni momenti, oltre alla mancanza tra gola, viso e petto dello sforzo per i lunghi acuti, nemmeno ripete a livello labiale per intero i versi delle opere quasi fosse Marcella Bella al Festivalbar.
Per capire la differenza tra un’attrice che si mimetizza non sapendo granché degli aspetti tecnici di un ruolo astruso prendete Cate Blanchett direttrice d’orchestra in Tar (sempre qui a Venezia un paio di anni fa) e confrontatelo con la catatonia febbrile della Jolie. Guardate, Maria è davvero una grossa, pomposa ed inutile fregatura cinematografica d’autore. Posizione in Concorso per fiducia pregressa (ma quanto sono lontani i tempi di Tony Manero, No, El club?) ma si spera niente allori dovuti. Produzione italo-statunitense-tedesca in mano già a Netflix.