50 piccole sfumature di Kidman. Doveva essere lo scandalo sadomaso del Lido, ma non è altro che un altro imbarazzante disastro in Concorso al Festival di Venezia. Babygirl, diretto e scritto (?) da Halina Rejin, è uno di quei film che ti fanno rimpiangere le ossessioni carnali sparse in Basic Instinct o Attrazione fatale. Se poi vogliamo aggiungerci la cosiddetta dinamica di “potere tra i sessi” potremmo anche scappare dalla sala dopo nemmeno mezz’ora di film.
In piena New York City, ai piani alti di una multimilionaria azienda di e-commerce, l’amministratrice delegata Romy (Nicole Kidman) decide vita, morte e miracoli dei suoi sottoposti, tra cui un gruppetto di stagisti. Tra di loro il bel Samuel (Harry Dickinson), tutto tatuaggetti cool e addominali scolpiti, che sembra intendersela, ricambiato, proprio con Romy. La donna è però in privato parte di una famiglia modello, ricca e felice: il marito (Antonio Banderas) è un regista teatrale di grido, mentre una delle due figliole adolescenti ha una relazione sentimentale lesbica ultrapop. Il problema, comunque, non sta tanto nella sacra funzione delle corna, madre o padre di mille drammaturgie, quanto nella possibilità di Romy di raggiungere l’orgasmo attraverso una tradizionale e attiva vita sessuale con suo marito.
Infatti Babygirl, oltre ad iniziare su schermo nero e ansimo frenetico della Kidman, prosegue subito con lei che corre via dal letto dove il marito ha raggiunto l’orgasmo per giungere in gran segreto davanti a un pc a masturbarsi mentre guarda un video porno, apparentemente giostrato tra un bislacco “master” e la sua amatoriale schiava. Puntualizziamo questo aspetto perché è l’elemento più claudicante del film. La cosiddetta “scatola nera che sta in ognuno di noi”, le perversioni sessuali nascoste insomma, quelle che turbano la psiche di Romy, sono così mosce e confuse nella loro esposizione pratica bdsm da risultare ridicole.
È un desiderio abbozzato, indeciso, vagamente oscuro, quello che cerca di soddisfare Romy. Tanto che le sequenze in cui si sviluppa il rapporto tra lei e lo scopamico, le capatine sul tetto dell’ufficio, gli incontri in anonime stanze d’albergo, faticano non tanto a farsi, ma proprio ad essere. Certo il click deriverebbe dal momento in cui per strada, senza che ancora Romy lo conoscesse, Samuel ha tranquillizzato un cane feroce dandogli un biscottino. La sottomissione modello canino sembra essere ciò che più fa arrapare Romy. Ad esempio l’ossessione nel ricevere una caramellina in ginocchio da Samuel, o bere a carponi del latte in una ciotola ai suoi piedi, e dopo “venire” grazie ad una classica masturbazione da parte di lui, possibilmente senza vedergli la mano e il viso.
Insomma, se questo nucleo sensoriale che deve pulsare non pulsa, il resto figuriamoci. La strategia è quella dell’accumulo infinito dello stesso blocco narrativo della scappatella in attesa che lo scopra Banderas. Un accumulo che non sa mai di indicibile perversione ma solo di caotico vendibile pudore mainstream. Se tutto questo non bastasse, se non fosse sufficiente la fotografia simil livida con l’imminente Natale (era per epater le bourgeois quarant’anni fa), il titillante tema musicale modello stampella di senso, ci si mette pure a sparuti tratti la dinamica del potere in ufficio. Perché per chi riesce ad arrivare in fondo alle oltre due ore di Babygirl, non solo deve digerire una liason proibita che azzera ogni gerarchia aziendale – donna sopra l’uomo – e che riduce la Kidman ad una vecchia patetica ninfomane, ma di ritrovarsi nel bel mezzo di un girl power fuori tempo massimo.
Segnaliamo che probabilmente per non incappare in qualche bollino di divieto, la Kidman mostra solo per un istante il sedere scoperto, e che per dire che provare dolore la fa godere quando si fa fare una punturina di botox agli zigomi dice all’infermiera: “No, niente anestetico”. Scult vero in corsa per il Leone d’Oro. Prodotto da A24, oramai diventata factory indipendente hollywoodiana delle idee stravaganti ma inconcludenti. La Kidman torna, infine, al Festival a vent’anni da Birth e a ventiquattro da Eyes wide shut, dove sempre il suo personaggio fantasticava altro sesso rispetto a quello con il marito Tom Cruise. Stanley Kubrick se la starà ghignando dalla tomba.