Bella. Potente. Memorabile. Se ripenso alla cerimonia inaugurale dei Giochi Paralimpici di Parigi 2024, sono questi i primi tre aggettivi che la inquadrano. Bella per l’eccezionale bravura del regista Thomas Jolly e del coreografo Alexander Ekman che in dodici “quadri” hanno dato spessore politico e poetico ad un movimento che ha scandito soprattutto negli ultimi anni tappe fondamentali nel difficile e tormentato percorso dell’inclusione sociale e dell’integrazione sportiva.
Jolly e Ekman hanno scelto un luogo simbolico per la cerimonia: place de la Concorde, la più grande di Parigi, il luogo dove caddero le teste coronate di re Luigi XVI e della regina Maria Antonietta. Ad un lato della piazza, c’è l’Assemblea Nazionale. Al centro, l’immenso obelisco. In questa piazza confluisce il viale più famoso del mondo, les Champs Elysées e lì, tra due ali di folla che non hanno smesso di incitarli ed applaudirli (c’erano mezzo milione di persone), sono sfilate le 168 delegazioni e i 4400 atleti che sono arrivati alla Concorde, dove altri 65mila spettatori occupavano le tribune, compresa quella delle autorità, in primis Macron e sua moglie Brigitte, tra gli ospiti anche il presidente Mattarella.
Potente, perché come ha rimarcato il brasiliano Andrew Parson, presidente del Comitato Internazionale Paralimpico, “liberté, egalité, fraternité”, le tre parole che in quella piazza echeggiarono furiose oltre due secoli fa, “non potrebbero trovare luogo migliore per risuonare”. Incitamento “rivoluzionario” in ogni senso: perché nella cerimonia concepita da Jolly ed Ekman inclusione e diversità non solo erano e devono essere ospiti d’onore, ma un messaggio – appunto potente – di unità e di cambiamento. Pure in questo che è “uno dei momenti più critici della nostra storia recente”, ha proseguito Parson, “in questo periodo in cui i conflitti internazionali s’infiammano, in cui odio ed esclusione crescono, lo sport è il legame sociale che ci unisce”. Badate bene: dice sport, senza alcuna declinazione sulla disabilità. Poco importano, è il leit motiv politico dell’evento e dell’occasione, le differenze di genere, di età, di colore, di religione. E di handicap. Ciò che ci rende più vivi, messaggio per nulla subliminale, è che i campioni della differenza vengano garantite condizioni ottimali agonistiche, perché contribuiscano a diffondere un’immagine positiva delle persone con disabilità in una società che a parole vorrebbe essere inclusiva, ma nei fatti, e soprattutto nella stragrande maggioranza dei Paesi, è vittima di criticità quotidiane, di “muri”, di inaccessibilità, di pregiudizi legati alle deficienze del corpo e della mente.
Ogni tanto, sui giganteschi schermi (curvi, piegati cioè alle necessità coreografiche che avevano previsto due torrioni rotondi ai lati dell’immenso palcoscenico appoggiato sulla piazza) comparivano le testimonianze di chi queste problematiche le vive, le ha vissute, ha cercato e continua a cercare di superare, col traino della passione, dell’ottimismo, della fiducia in se stessi, nella difficile battaglia per non soccombere alla disperazione, alla commiserazione, alla paura. Come ha detto Bebe Vio (una delle ultime tedofore, alla cerimonia inaugurale), quando le annunciarono che per sopravvivere le avrebbero dovuto amputare avambracci e gambe, “fu come se io implodessi. Una parte del mio corpo cercava di uccidermi, era come un combattimento di scherma”. Il suo sport. In cui è regina: cinque titoli europei, quattro del mondo, due titoli paralimpici a Rio nel 2016 e a Tokyo nel 2021.
Infine, perché questa cerimonia, a suo modo, è stata memorabile, altrettanto di quella spavalda e geniale che aprì un mese fa i Giochi Olimpici? Lo ha spiegato in modo semplice ma profondo Tony Estanguet, il presidente del Comitato organizzatore (lo era anche dei Giochi): “Benvenuti nella città dell’amore. E della Rivoluzione”. Se sull’amore non è andato oltre il cliché di Parigi – ieri sera, meravigliosa: queste cerimonie inaugurali sono spot strabilianti, ti viene voglia di far fagotto e fiondarti sotto la Tour Eiffel – è sulla rivoluzione che Estanguet ha forzato il suo messaggio: “Ciò che fa di voi dei rivoluzionari, è che quando vi si dice ‘no’, voi avete continuato. Quando vi è stato detto ‘handicap’, avete risposto: ‘performance’. Quando vi è stato detto che era impossibile, voi l’avete fatto. Ora, voi ci invitate a raggiungervi per condurre insieme questa rivoluzione paralimpica. Ci invitate a cambiare sguardo, a cambiare d’attitudine, a cambiare la società, per dare infine ad ognuno il proprio posto”. E il mondo della disabilità è divenuto ormai anche un laboratorio tecnologico (e quindi sociale): l’ingegneria sempre più sofisticata agevola gli spostamenti, restituisce energia, contribuisce a migliorare la nostra assai precaria socialità. Purtroppo, questa società ha ancora molto, moltissimo da fare su questo fronte.
Considerazioni sparse. 1) I francesi hanno dato lo stesso peso mediatico ed organizzativo (tenuto conto che ai Giochi gli atleti erano 12mila, alle Paralimpiadi 4400) delle Olimpiadi che si sono concluse due settimane fa: Parigi non ha trattato i Giochi paralimpici come un evento di serie B. 2) La sfilata dei paratleti è stato un momento di grande intensità, allegria e felicità. Un numero impressionante di sorrisi sui volti dei paratleti. 3) So che qualcuno si irriterà. Ma vi immaginate una cerimonia come questa in Italia, senza preti, vescovi e cardinali, benedizioni e scampanii? A Parigi, la laicità è accettata e praticata. E persino nel mondo rosa di Barbie, c’è Becky, l’amica, sexy e raggiante nella sua carrozzella da corsa a tre ruote inclinate…