C’è tutta una retorica da smontare. “Si parla di ‘supereroi‘ come si parlerebbe di ‘ragazzi speciali’, eufemismi umilianti usati pensando di fare un favore”. E si parla “dei messaggi positivi che trasmettono ‘superando la disabilità’, mettendo un’enfasi spropositata sull’eccezionalità delle loro performance”. Simone Riflesso, esperto di linguaggio inclusivo e rappresentazione mediatica della disabilità, ha ben presente cosa ancora non funziona nel racconto delle Paralimpiadi. C’è il rischio di cadere nell’abilismo, utilizzando i termini idonei, ma anche in una comunicazione zeppa di pietismo e di eccessiva esaltazione di atlete e atleti con disabilità. Vietato “voler a tutti i costi lanciare messaggi motivazionali“, sottolinea. Attivista con disabilità, queer, noto col suo pseudonimo Simone Riflesso, si occupa in particolare di abilismo in un’ottica intersezionale. Vive in provincia di Mantova insieme alla madre, ha un background da designer specializzato in data experience e un passato da tatuatore e illustratore. È impegnato da alcuni anni in comunicazione inclusiva, contenuti digitali accessibili e usa i dati come strumento di attivismo. E a ilfattoquotidiano.it ha spiegato quale dovrebbe essere l’approccio corretto con cui assistere e commentare i Giochi Paralimpici 2024 in corso a Parigi.

Come attivista con disabilità motoria quali sono i temi che segui con maggiore interesse in ambito comunicazione?
In generale mi occupo di come l’abilismo, il sistema di pensiero e credenze che svaluta la disabilità con pregiudizi e discriminazioni, si manifesta in ogni ambito della vita delle persone con disabilità. Lo faccio dal punto di vista intersezionale, ovvero considerando la natura interconnessa delle oppressioni sistemiche come misoginia, razzismo, omofobia e transfobia. Mi focalizzo anche sulla visibilità e consapevolezza dell’intersezione fra disabilità, neurodivergenze e comunità lgbtqia+. Mentre in ambito più politico mi interesso di Vita Indipendente e non autosufficienza.

Sono iniziate le Paralimpiadi. Come vorresti venissero commentate e quali sono le giuste chiavi di lettura?
Siamo abituati purtroppo a un trattamento molto diverso fra atleti olimpici e paralimpici. Dei primi si commentano le gesta sportive, degli atleti disabili invece sì parla della loro storia, dei messaggi positivi che trasmettono ‘superando la disabilità’, mettendo un’enfasi spropositata sull’eccezionalità delle loro performance. Intanto non si supera proprio niente, lə atletə gareggiano con la propria disabilità, fino a prova contraria.

Che errori si commettono solitamente nelle telecronache?
Quello che si intende erroneamente dire è che si superano i limiti e il senso di impotenza che si attribuisce alla disabilità, ma perché si vede la disabilità come sconfitta sociale e personale, come tragedia, e vedere qualcunə performare con la propria disabilità crea stupore e un senso di speranza e ispirazione. Ma è tutto negli occhi di chi guarda, filtrato dalle basse aspettative nei confronti delle persone che convivono con una disabilità. Ed è molto umiliante e svilente. Mi aspetto invece che si commentino le prestazioni sportive per quello che sono, limitandosi a quello che atlete e atleti paralimpici fanno, non a quello che rappresentano.

Su quali focus i media dovrebbero concentrarsi?
Intanto vorrei si dimenticassero della cartella clinica e della diagnosi di atleti e atlete con disabilità. Che non si parli degli incidenti – che a volte sono capitati svariati anni prima -, come a voler alimentare una pornografia del dolore che purtroppo in Italia siamo troppo abituati a fare e vedere, cercando la lacrimuccia. Trattiamo lə atletə professionistə come tali e descriviamo le performance, senza voler a tutti i costi lanciare messaggi motivazionali.

Ad esempio cosa va evitato?
Niente “se vuoi puoi” o “tutto è possibile se ci credi veramente”, che sono menzogne. “Si può” perché si viene messi nelle condizioni di farlo. Arrivare ai livelli delle competizioni internazionali è frutto di impegno sportivo ma anche di privilegi economici che non tuttə hanno, anzi.

Quali i temi da affrontare?
Tuttalpiù che si parli delle vere difficoltà e barriere fisiche e culturali che lə atletə con disabilità affrontano ogni giorno a causa di una società che non prevede la disabilità. Dalle fatiche aggiuntive che devono affrontare a causa di questo, anche per arrivare a allenarsi e performare.

C’è il rischio di un’esaltazione eccessiva dei protagonisti in gara, visti come “super-eroi”.
Si parla di ‘supereroi’ come si parlerebbe di ‘ragazzi speciali’, eufemismi umilianti usati pensando di fare un favore, per esaltare la persona e contrapporla ai limiti visti nella disabilità (sempre perché si vede nella disabilità una tragedia da cui doversi riscattare). Si oggettifica la loro storia e si esaltano eccessivamente le loro performance per farne messaggi motivazionali e di speranza rassicuranti ad uso e consumo di chi non è disabile. L’attivista australiana Stella Young l’ha chiamata “pornografia motivazionale”, in un TED talk del 2012.

Il pubblico come vede gli atleti e le atlete paralimpiche?
Sappiamo da una ricerca condotta da Channel4, l’agenzia creativa che si è occupata delle campagne di comunicazione delle Paralimpiadi dal 2012, che il 60% delle persone le guarda per vedere gli atleti e le atlete ‘superare la disabilità’. Il grande pubblico vuole degli eroi da cui farsi ispirare, anche a causa delle campagne di comunicazioni passate e dalle narrazioni fatte dal comitato paralimpico internazionale stesso e amplificate dai media. Serve un’inversione di rotta.

Per chi non conosce direttamente la disabilità, cosa suggerisci di fare guardando i Giochi Paralimpici?
Gli direi che le Paralimpiadi non servono ad alimentare la positività tossica del “se vuoi puoi” e del “tutto è possibile se ci credi veramente”. Che non sono fatte per pensare “c’è chi sta peggio” o che “dobbiamo goderci la vita dando il giusto peso alle piccole cose”. Né che “se ce la fa lui” allora “non ci sono scuse per farsi abbattere dalle difficoltà della vita”, o “dobbiamo ricordarci di quanto siamo ingrati di quello che abbiamo” (sottotesto: “perché almeno non siamo così”, ed è estremamente umiliante). Questo evento rappresenta l’eccellenza della performatività sportiva internazionale e anche con una disabilità si può eccellere e ottenere grandi risultati. Non “nonostante la disabilità”, ma “con una disabilità”. Punto.

Come valuti l’inclusione sportiva in Italia? Quali sono gli aspetti da migliorare?
Lo sport inclusivo in Italia è per privilegiati. Occorre poter acquistare l’attrezzatura necessaria e vivere nelle vicinanze delle strutture sportive accessibili per allenarsi. Fondamentale anche il potersi permettere economicamente di viaggiare e partecipare alle trasferte. Tutto questo è possibile per chi ha una rete di supporto familiare o di affetti che lo sostenga, per chi ha un lavoro, per chi non dipende dal lavoro di cura non retribuito dei caregiver familiari o da poche ore garantite dalle misure insufficienti per la Vita Indipendente. E per chi ha la tempra di tollerare il machismo e l’abilismo che permea la nostra comunità, anche nello sport.

C’è infine un’altra questione da evidenziare sul tema comunicazione.
Sì, è importante dire che retoriche e narrazioni abiliste e quindi cariche di stereotipi e pregiudizi possono arrivare anche da atleti e atlete con disabilità. Vivere con una disabilità non implica necessariamente avere una visione corretta della disabilità. Dipende da quanto si è decostruito l’abilismo interiorizzato da una società che ci abitua a continue svalutazioni della disabilità, a cui ognuno reagisce a meccanismi di adattamento non consapevoli per cercare di essere accettati dallo status quo. Senza dimenticare che venir presi da ispirazione e esempio è un ruolo appetibile per qualsiasi ego, soprattutto se porta sponsor e approvazione sociale.

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