Mostra del Cinema di Venezia

Festival di Venezia, Diciannove – Un film semplice, giocoso, libero e indispensabile. Produce Luca Guadagnino

Finalmente il dio del cinema si è ricordato del Festival di Venezia. Diciannove, opera prima di Giovanni Tortorici, sezione Orizzonti, è piombato sul Lido e non riesci a togliertelo dalla testa. Un film semplice, giocoso, libero e indispensabile. Coming of age mai serioso (e mai all’opposto ridanciano) che non guarda in faccia a nessuno, privo di stereotipi recitativi e di scrittura, lontano dai corrucciati tinelli del cinema italiano ma vicino teneramente ai fornelli. Per Leonardo (Manfredi Marini) è il fatidico momento della scelta dell’università, facoltà di Lettere: da Palermo verso Londra – dove già vive la sorella quasi coetanea – poi di ritorno a Siena e infine Torino (passando per Milano e ancora Palermo).

Timidamente ostinato a non omologarsi alla massa, adora il Pulci o il Giordani invece delle rime dantesche, ma non se la tira affatto e nemmeno fa il nerd impacciato. Vorrebbe azzuffarsi e in parte si azzuffa (dialetticamente) con i tromboni accademici, manda a quel paese Benigni e le sue letture della Divina Commedia, mentre Pasolini effettivamente “scrive male”. Ma al centro di Diciannove non c’è la spocchia di chi sa e fa cadere tutto dall’alto, bensì la normalità del quotidiano, i piccoli gesti goffi della spesa con le borse che si spaccano, l’ironico imbarazzo di un non detto, la necessità di farsi gli affari propri.

Oltretutto, l’appartamento senese, corposo e centrale minutaggio del film, è di quelle stamberghe senza nemmeno il wi-fi che sembra appartare spazialmente e ulteriormente il ragazzo. Conto corrente perennemente vuoto, chino a sfogliare libri antichi e a cercarne copie rare su ebay, come a ubriacarsi, fumare e giocare a calcio coi coetanei, inseguito peraltro con insistenza da alcune coetanee, Leonardo si masturba vedendo Salò e sembra abbozzare approcci gay online.

Ogni spunto descrittivo in Diciannove è trattato con distaccante ironia, in egual misura e peso, poi sfumato, archiviato, magari nuovamente in campo e di nuovo lasciato cadere. Come del resto ogni sguardo di Leonardo non cerca mai scorciatoie cartolinesche (l’arrivo a Siena sui tetti) e ogni inquadratura di Tortorici non ne ricalca, ricopia, nasconde un’altra uguale. Ciò che sembra avere i connotati della magia nel film non è tanto il susseguirsi degli apici di ciò che accade realmente nella vita del protagonista (il voto all’esame, la bocciatura, un bacio, un’eccitazione) ma come ogni dettaglio di per sé sprigioni umana pungente autenticità. Tortorici ha luci, ombre, tagli, angolazioni di Diciannove già intrinsecamente costruite nel proprio sguardo e da lì sgorgano con straordinaria naturalezza verso chi guarda, persino facendo oscillare possibili prurigini e moralismi. Osservate questa sorta di ricerca estetica del bello da parte di Leonardo in quell’angolo di un gradino di un liceo dove siede una coppia di ragazzini.

Tortorici sembra accompagnarti in una trappola allusiva/interpretativa, ma in una manciata di secondi veniamo immersi in un paio di sequenze di rara abbacinante purezza visiva ed etica. Tante le inattese peculiari deviazioni stilistiche: fermo immagine che non t’aspetti, buchini tondi nell’inquadratura, improvvisi minuscoli momenti di animazione, un soundtrack anomalo, cortese e impossibile tra Benedetto Marcello, Pergolesi, Strawinsky e Ghali. Diciannove sgrassa la visione festivaliera da quegli orpelli artificiosi di chi all’esordio vuole scimmiottare a tutti i costi qualche preciso autore. Produce Luca Guadagnino, per il quale Tortorici è stato assistente alla regia. Marini è Leonardo tanto quanto Jean Pierre Leaud era Antoine Doinel.