In tempi di guerra (Ucraina, Gaza e 57 altri fronti attivi nel mondo) mentre domina incontrastato quel potente complesso militare-industriale di cui per primo parlò Ike Eisenhower – un generale – anche il concetto di neutralità vacilla. Quando si parla di neutralità, in termini militari e geopolitici, si pensa alla Svizzera. La Confederazione elvetica è il paese che tutti comunemente associamo, nel cuore dell’Europa, non facente parte della Nato, allo status di nazione non combattente che in caso di guerra rimane neutrale. Eppure, ecco la notizia clamorosa, spiegabile solo con la narrativa bellicista imperante in Occidente: anche la Svizzera sta pensando di gettare la spugna. Meglio schierarsi.

Lo si deduce dal rapporto finale della commissione di studio sulla politica di sicurezza, istituita un anno fa dal Dipartimento federale svizzero della difesa, della protezione della popolazione e dello sport (DDPS), un organismo pluralista composto da esponenti del mondo politico, economico e scientifico, dell’amministrazione e dei Cantoni. Ha concluso i suoi lavori constatando “il netto deterioramento della situazione in Europa, caratterizzata da politiche di potenza, regioni in crisi sempre più destabilizzate e, soprattutto, dalla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina”.

Nel rapporto, che contiene più di 100 raccomandazioni in sette ambiti, su come la Svizzera potrebbe orientare la sua politica di sicurezza verso il futuro a partire dal 2025, al capitolo “neutralità” si legge: “La politica di neutralità deve essere rivista, più focalizzata sulla sua funzione di sicurezza e applicata con maggiore flessibilità. Bisogna allineare meglio la politica di neutralità alla Carta delle Nazioni Unite e tenere maggiormente conto della distinzione tra aggressore e vittima”. A livello internazionale, “la cooperazione con la NATO e l’UE deve continuare ad essere approfondita al fine di ottenere una capacità di difesa comune e diventare una vera cooperazione di difesa“. Ineluttabile, quindi: da caposaldo dei paesi non schierati militarmente, anche Berna si avvia a prendere decisamente una posizione pro NATO, con indicazioni inequivocabili di una Commissione specializzata a governo e parlamento elvetici.

Da tutti i sondaggi risulta che decine di milioni di persone in Europa sono favorevoli all’idea di una Ucraina neutrale – il progetto originario di Vladimir Putin presentato alla NATO nel dicembre 2021 – anche se poi la realtà è che il bellicismo a oltranza seguito all’invasione russa del 24 febbraio 2022 ha registrato un’impennata senza precedenti. Può essere interpretata e applicata in modo diverso, la neutralità. Sul tema, il paese più civile e avanzato del mondo, il Costa Rica, non solo è neutrale ma decise la completa smilitarizzazione e l’abolizione dell’esercito già il 1° dicembre 1948, e ciò ha contribuito al mantenimento della pace in tutta quell’area dell’America Centrale. La Svizzera aveva scelto una “neutralità armata”: non partecipa a guerre e dispiegamento di truppe, ma mantiene un esercito agguerrito e specializzato, come Israele, con richiami continui al servizio militare dei cittadini, per scoraggiare eventuali aggressioni esterne.

L’invasione dell’Ucraina e la neutralità territoriale per Kiev chiesta da Mosca hanno messo in luce per la prima volta un fatto sconosciuto alla grande maggioranza del mezzo miliardo di cittadini europei: nell’Unione Europea, Irlanda, Austria, Malta e Cipro sono nazioni ufficialmente neutrali (nessuno di questi paesi come ovvio ospita bombe atomiche americane come quelle che l’Italia ‘custodisce’ in dual sharing con gli USA nelle basi militari di Ghedi e Aviano). Finlandia e Svezia lo erano da decenni, ma dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa hanno aderito alla NATO per ‘bisogno di protezione’, portando così i paesi dell’Alleanza Atlantica a un totale di trentadue. Durante la Guerra Fredda un altro paese europeo, la Jugoslavia, rivendicò la neutralità militare e ideologica, scelta poi proseguita dalla Serbia. Giuridicamente, la neutralità è regolata nelle Convenzioni V e XIII dell’Aia del 18 ottobre 1907. Si basavano sul presupposto che allo scoppio di una guerra esistono solo due tipi di stati, neutrali e belligeranti, e che la legge della neutralità è applicabile a ogni conflitto internazionale (la legge della neutralità è stata poi sancita dalla Carta delle Nazioni Unite all’articolo 2, nei paragrafi 4 e 5).

In Italia di neutralità non si parla mai, né tra i partiti, né tantomeno a livello di governi (sinistra, centro o destra sono tutti filo-americani e succubi della NATO) ma la questione non interessa nemmeno – il che è scandaloso – le associazioni pacifiste e antimilitariste (solo Papa Francesco è neutrale e pro-pace). Non solo il ministro della Difesa, Guido Crosetto, nessuno in verità sembra tenere nella dovuta considerazione l’art. 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”). Forse solo AVS e M5S emettono qualche vagito anti-militarista ma non vanno oltre.

Dal febbraio 2022 il mondo e l’Europa hanno subito un terremoto che ha scosso alle fondamenta i vecchi principi. L’Italia e la Germania, vale a dire i paesi più propensi culturalmente al concetto di neutralità (nei sondaggi l’85% degli italiani è contro la guerra e il riarmo, preferendo dirottare gli investimenti in sanità, scuola, lavoro e servizi sociali) si sono trovate di fronte a un fatto quasi ineluttabile, cioè non poter essere né neutrali né sovrani, in quanto parte integrante dell’Alleanza Atlantica a guida americana di fronte ad una minaccia non teorica, ma concreta come l’invasione russa dell’Ucraina.

Il governo di Mario Draghi per primo deliberò l’invio di armi “difensive” a Kiev, approvato a larga maggioranza a più riprese dal Parlamento. Una rottura rispetto alle politiche del passato. In Germania altro shock, seppelliti in poche settimane i sedici anni di quasi pacifismo dell’era Merkel: il cancelliere Sholtz ha varato un fondo da 100 miliardi di euro per investire nel riarmo tedesco, impegnando il paese a spendere per i prossimi anni nella Difesa più del due per cento del Pil (la soglia richiesta dalla NATO ai propri membri, mentre il rapporto della Commissione Svizzera raccomanda di aumentare il bilancio militare all’1% del PIL entro il 2030).

Il problema chiave irrisolto è uno: il legame di sudditanza dell’Ue alla NATO. Siccome è difficile identificare un interesse geostrategico comune dei diversi Stati dell’Unione – non esiste una politica estera europea e mai esisterà – sono i generali della NATO (cioè il comando militare del Pentagono) a decidere basandosi sullo schema strategico della contrapposizione di blocchi di potere. In questo scenario, conciliare la politica di potenza atlantica (una difesa unificata credibile in funzione anti Russia e soprattutto anti Cina) con una politica di pace e progresso civile (cioè un impegno non aggressivo nella comunità internazionale e una vocazione pacifista volta al progresso da parte di Bruxelles) pensate sarà mai possibile?

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