“Che diavolo stai dicendo, Willys?” (What’chu talking ‘bout, Willis?”). Era questa la frase magica nella sitcom “Different Strokes”, in Italia lanciata con il titolo “Il mio amico Arnold”: a recitare la battuta era Gary Coleman, attore dalle inconfondbili guance paffute che interpretava Arnold Jackson, adottato assieme al fratello più grande da un miliardario bianco, mister Drummond. Serie di successo tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 negli Stati Uniti, in Italia fu trasmessa per la prima volta da emittenti private con il titolo “Harlem contro Manhattan”, per poi approdare su Canale 5. “Che diavolo stai dicendo, Willys?” è una frase-simbolo per chi era ragazzino a quell’epoca e che, da fan, si è poi appassionato alle vicende personali degli attori, molti dei quali finiti in bancarotta o morte per overdose di stupefacenti (Dana Plato, che interpretava la sorella bianca “acquisita”).

Come spesso accade alle star controverse, sulla fine di Gary Coleman resta un alone di mistero, ora rilanciato dal documentario “Gary”, andato in onda negli Usa sul canale Peacock il 29 agosto: l’accusa non è diretta, ma si esprimono dubbi sulla morte di Coleman avvenuta il 28 maggio 2010 – aveva appena 42 anni – per una caduta: l’attore era in casa con la moglie, Shannon Price. Causa del decesso: emorragia cranica e arresto cardiaco. Un “fenomeno in miniatura”: così viene descritto Gary Coleman, che a causa di una malattia renale era rimasto con la statura di un bambino di 7/8 anni: questa condizione era stata la sua fortuna nel mondo della sit-com, e la sua disgrazia nella vita reale. lui stesso si definiva “il sacco da boxe di Dio”.

Il documentario raccoglie una serie di testimonianze, nella maggior parte dei casi si tratta di amici di Coleman, che manifestano la loro perplessità rispetto alla morte accidentale, sebbene le indagini della polizia lo abbiano stabilito in modo ufficiale. Il comportamento della moglie, per alcuni, resta ambiguo: nella produzione televisiva viene riportata la sua conversazione al numero di emergenza 911, durante la quale lei evita di seguire le istruzioni dell’operatore, quando le viene chiesto di sollevare la testa del ferito: “No, non posso…è tutto insanguinato…”. Nel documentario, Price dichiara: “Pensavo solo che sarebbe andato in ospedale, si sarebbe fatto mettere i punti, sarebbe tornato e che sarebbe andato tutto bene”. E in un passaggio risponde ai dubbi su di lei: “Sono l’ex moglie, dunque sono quella cattiva, giusto?”. L’attore aveva lasciato una direttiva sanitaria in cui chiedeva che in caso di crisi, passassero due settimane prima di staccare la spina. Dopo l’incidente, questa circostanza si verificò solo due giorni dopo.

La fine di Gary Coleman va di pari passo con le sue vicende personali: guadagnò 18 milioni di dollari, ma di soldi ne vide ben pochi: fece causa ai genitori e al suo agente e persino ai suoi avvocati. Impossibilitato ad avere una vita da adulto, intrappolato nel corpo di un bambino, per un periodo il matrimonio con Shannon Price diede una parvenza di normalità alla star di “Different Strokes” ma anche su questo piano si aprono scenari poco sereni: chi li conosceva, descrisse la vita di coppia relazione come “tossica”. La fine di “Arnold” si inserisce, secondo il documentario a lui dedicato, in quella serie di misteri grazie a cui l’industria americana dell’intrattenimento mantiene vivi i suoi beniamini, anche quando non ci sono più o hanno avuto vite reali ben lontane dalle fortune e dalla leggerezza interpretate sullo schermo. “La celebrità è sempre un peso. Ti tocca per tutta la vita; sarai una celebrità anche se non lavori da 20 anni”. Era questa la condanna di Gary Coleman, e così la raccontò nell’ultima intervista. Se fosse stata dentro la sit-com, a quella frase sarebbe seguita la sua celebre battuta: “Che diavolo stai dicendo?”. Ma la fine di quest’icona americana non ha previsto risate, o applausi scroscianti preregistrati.

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