Per un mese la morte di Sharon Verzeni è stata un giallo, di quelli più complicati da risolvere, niente movente, niente arma del delitto, tante troppe piste, la famiglia nel mirino, il compagno Sergio, una vita scoperchiata alla ricerca vana di segreti e stranezze, alimentate nel dubbio di una vita troppo tranquilla, isolata, abitudinaria fino all’estremo, in una provincia, quella bergamasca di Terno d’Isola, tanto distante dal caos metropolitano da diventare colpa e sospetto. In un solo giorno, anzi in poche ore, il giallo si è però drammaticamente trasformato in un vero e proprio racconto dell’orrore senza motivi evidenti, che ben va al di là del problema sicurezza per le nostre strade, ma scava inesorabile nella mente umana, dalla luce al buio, dal raziocinio alla follia in un piano inclinato lungo il quale sogni e speranze via via scompaiono fino al click definitivo. Quando tutto si spegne per riaccendersi in una realtà altra, dove uccidere per uccidere assume senso e sostanza, diventa gesto da esercitare e mettere in pratica.
Ecco, qui sta tutto il giallo che diventa incubo. Muore così Sharon, con quattro coltellate sferrate da Moussa Sangare, 31 anni, italiano, nato da genitori originari del Mali. Il suo sogno era la musica, rap, hip hop, per lui anche la partecipazione fallita a X Factor. Un sogno spezzato che si trasforma in rabbia cupa. Che cova sotto le ceneri di una violenza domestica ed esplode al termine della notte in via Castegnate, dopo aver girovagato in bici alla caccia di una vittima.
Mousse ci pensa con due ragazzini, estrae il coltello, poi tira dritto, incrocia altri due uomini, ma tira dritto ancora. Forse sta pensando di tornare a casa, forse per questa notte basta così, fino a che ecco Sharon, la musica nelle orecchie, di rientro verso casa dopo una passeggiata notturno, è tranquilla, serena, non si accorge di nulla, fino al primo colpo al petto che colpisce lo sterno, poi altri tre alla schiena, il polmone perforato, le gambe molli, il sangue, la chiamata al 112: “Mi ha accoltellato”, poi il buio più buio di quella notte.
Muore così Sharon, 33 anni, barista, ma muore in fondo anche Sergio Ruocco, elettricista e compagno nel mirino dell’indagine per quel suo fare tranquillo, sempre pacato mai nervoso, interrogato per ore dai carabinieri. Riservati, che c’è di male? Poco inclini ad uscire. A Terno in pochi li conoscevano. E quindi? Tanto vale un’accusa? A loro bastava quella casa affacciata sui campi di Terno, il lavoro, i parenti, il sogno ormai reale di un matrimonio e di un figlio. Tutto dannatamente normale, cristallino. Scientology, i soldi per pagare i corsi che Sharon seguiva da qualche tempo. Erano un movente? Macché.
Da capire c’è ben poco, nemmeno l’assassino sa dire il motivo. Allora per dare un senso a questa storia tocca ripartire da via Merelli al civico 28 dove Sergio e Sharon vivevano da tre anni cullando il sogno discreto di una coppia normale. Una rosa appassita resiste sul cancello della palazzina a due piani, bollette e volantini pubblicitari nella posta. Vetro e cemento, nuove costruzioni. Oltre il cancello un piccolo giardino e una palma, più in là un caminetto per la griglia, accatastata della legna e una canna per innaffiare. Sul balconcino il tavolino bianco e due sedie. Niente piante, niente fiori. Sul retro un altro po’ di verde prima della siepe che divide la casa dai campi in questa assolata periferia di Terno.
Un porto calmo dove rientrare ogni sera dopo il lavoro. Da qui il 30 luglio a mezzanotte Sharon esce per un passeggiata. Lo fa da un po’, per stemperare il caldo e tenersi in forma. Sergio dorme dalle dieci. E’ stanco, il lavoro, l’afa. Non si accorge di nulla. La grande telecamera in via Marelli del resto riprende solo Sharon. Che si avvia così lungo via Casolini, strada, ampia, alberata e buia. Risale verso via Roma e il centro. Supera la piazza dei Sette Martiri per poi scendere lungo via Castegnate verso casa. Cinquanta minuti di camminata, ancora pochi altri e Sharon sarebbe rientrata nel suo appartamento. È serena, pensa forse al suo futuro, a Sergio alla famiglia. Vista dall’alto Sharon è un pallino che si muove per le strade di Terno. Basta a se stesso, non incontra persone, non parla al telefono. Ma c’è un altro pallino, Mousse in bici, che gira per le stesse strade. I due si sfiorano in via Castegnate. Lei scende, lui risale verso la piazza. Poi torna indietro e all’altezza del civico 29 colpisce con un coltello (ne aveva quattro nello zaino) e vola via in contromano ripreso da una telecamera.
È il 30 luglio. Da qui in poi il caso si trascina stanco sulle cronache locali, per esplodere mediaticamente dopo ferragosto. Carabinieri e Procura lavorano senza sosta, ma nulla emerge. Né dall’ambito familiare né da altro. C’è chi paragona il caso a quello di Yara Gambirasio. Come allora, anche qua vengono prelevati i Dna a circa quaranta persone. Si cerca un match genetico che non arriva anche perché i test sugli indumenti ancora non parlano. Fin da subito qualcuno solleva dubbi sugli sbandati che frequentano la piazza dei Sette Martiri. Terno si riscopre piazza di spaccio. Qualcuno sussurra che volti più brutti di altri dalla sera dell’omicidio hanno levato le tende. Altri puntano dritto sulla famiglia, su presunte liti per il mutuo o ancora Scientology. E però computer e cellulari non restituiscono né indizi né piste.
A quasi un mese dal delitto ancora si cerca l’arma. E si scava nelle telecamere per dare un volto a quell’uomo in bici che dopo via Castegnate viene inquadrato a Chignolo d’Isola. Saranno quei due uomini incrociati prima di Sharon a dare il match point in mano ai carabinieri. Sono italiani ma da genitori marocchini. Come Moussa, italiano di origini maliani. E dunque a poco vale la propaganda leghista di Matteo Salvini. Quei due uomini, Mousse li vede in via Torre che incrocia via Castegnate. Loro lo inquadrano bene e riferiscono tutto ai carabinieri. Per poi, davanti ai fotogrammi, riconoscere l’uomo in bici in Mousse.
L’inchiesta è chiusa. Il 31enne prima viene sentito come testimone, ma è nervoso, scatta il fermo per omicidio, ma non solo, i pm parlano di premeditazione e rischio di reiterazione, alla fine confessa ma non saprà spiegare. Perché in fondo come spiegare il buio della mente?