Mostra del Cinema di Venezia

Venezia 2024, quando tutto sembra funzionare con vigore, il film naufraga senza più capo né coda: la recensione di Campo di Battaglia di Gianni Amelio

Dovessimo trovare un voto per il film utilizzeremmo un punto interrogativo. Dovessimo trovare razionalmente una ragione di questa claudicante mancata integrazione di parti ci verrebbe da pensare che era finito il budget

In Sala Grande al Lido di Venezia, dopo la prima proiezione di Campo di Battaglia, film diretto da Gianni Amelio e prima produzione italiana in Concorso al Festival di Venezia, l’altoparlante ha annunciato che è stato smarrito il filo del discorso nella composizione drammaturgica del film.

Chi lo ritrovasse, ha concluso l’annuncio, è pregato di riportarlo nella cabina di proiezione per le prossime repliche. Peccato, perché Amelio aveva apparecchiato la tavola per un compunto, umanista, disperante film storico, nella sua oramai consolidata maniera calligrafica e raffinata regalandoci quasi un’ora di Campo di battaglia che non ammetteva borbottii o distrazioni. Una mano sanguinante che emerge invisibile da una catasta di cadaveri di fanti sul fronte italiano della prima guerra mondiale, dopo la momentanea disfatta, apre il film. Una carrellata carica di vibrante lirismo ameliano sull’ammasso di carne da macello del conflitto e su uno sparuto anelito di vita.

Poi subito la ritirata babelica, dialetti che schizzano ovunque, tra carri zeppi di feriti e i paesini del Nord, mentre da una finestra l’irreprensibile capitano medico Farradi (Gabriel Montesi, alla veneta, promosso) osserva infuriato assieme all’anziano, ricco e potente padre la vergogna della ritirata. Subito uno stacco e Amelio mostra quello che è il set naturale del film: il suo “campo di battaglia” non è la trincea o la terra di nessuno, ma un ospedale delle retrovie carico di feriti, spesso auto mutilati o auto lesionati per farsi esentare dalla trincea e tornare a casa. Ed è proprio Farradi il più integerrimo e sadico investigatore per scovare le bugie dei soldati. Non crede a nessuna loro versione sulle singole ferite e spinge tutti, anche lo zoppo, il monco, il cieco da un occhio a tornare in prima linea pena il plotone di esecuzione.

Di fianco a lui, tra le corsie, esercita anche l’amico e tenente medico Zorzi (Alessandro Borghi), più biologo che chirurgo, che però è caratterialmente all’opposto, come in ogni dualismo spesso proposto dal cinema di Amelio, a Farradi. Talmente alternativo ed accondiscendente rispetto alle ragioni dei soldati, anche se non buonista, che ha ricavato in una soffitta una sorta di ambulatorio dove ne accentuerà artificialmente le menomazioni (inoculando virus, tagliando gambe o mani) per consentire ai soldati il ritorno a casa. L’arrivo dell’infermiera Anna (Federica Rosellini), sorta di amata modello Addio alle armi, scombussolerà i delicati equilibri tra Farradi e Zorzi, come il rimpatrio dei fanti mutilati.

Capiamoci, per oltre metà film il ritmo solenne e cupo si rinforza di minuto in minuto, l’approccio straniante nella recitazione sottolinea la volontaria antispettacolarità proposta, l’assurdo, inqualificabile moto eroico di Zorzi si carica di ogni possibile peso sull’assurdità di ogni guerra e su cosa si accetta pur di scamparla. C’è perfino la sequenza esemplare della fucilazione di un soldato riacciuffato in stazione quando pareva averla fatta franca: prima con ampie panoramiche sui soldati menomati in funzione di spettatori del patibolo, poi con una carrellata a precedere tutti i soggetti della fucilazione che avanzano tra cui il condannato, macchina da presa che fende il gruppo di mutilati seduti e va a sovrapporsi all’occhio dello spettatore, oltre le spalle del condannato, finendo simbolicamente oggetto del tiro delle pallottole del plotone dei carabinieri. Insomma, quando tutto sembra funzionare con vigore inizia un altro film, una sorta di protesi incastrata a forza che fatichiamo a percepire consequenzialmente alla prima parte.

Giusto il tempo di capire che Zorzi è stato scoperto, come di celebrare molto sobriamente la vittoria delle truppe italiane, e Campo di battaglia si riempie di malati di “spagnola”, il virus influenzale che tra il 1918 e il 1921 sterminò si stima oltre venti milioni di persone nel mondo. I colpi di tosse e i pallori cadaverici, anche tra bimbi e povera gente di paese, sostituiscono i feriti di guerra sui letti d’ospedale. Zorzi viene mandato da Farradi in un fortino di alta montagna a studiare e possibilmente contenere il virus. Così Campo di battaglia naufraga senza più capo né coda, tra sacrifici individuali, neve e rocce friulane, mascherine, tamponi (sic) e bare sui mezzi militari come se esistesse un’attinenza con il Covid di oltre cento anni dopo.

Il potere cela la verità ai cittadini? Le massa saranno sempre pronte inconsapevolmente al massacro? Chissà. Dovessimo trovare un voto per il film utilizzeremmo un punto interrogativo. Dovessimo trovare razionalmente una ragione di questa claudicante mancata integrazione di parti ci verrebbe da pensare che era finito il budget e bisognava chiudere il film in fretta. Comunque in Campo di battaglia non tutto è da buttare. E come sempre Amelio sembra omaggiare il classicismo del cinema italiano migliore: infatti nel film c’è qualcosa che ricorda la violenta atmosfera autoritaria di Uomini contro di Rosi e quella sorta di astrattismo nei luoghi, costumi, personaggi di Il deserto dei tartari di Zurlini. Innestata l’inflessione settentrionale da Le otto montagne, oramai Borghi ha cancellato l’accento romano e qui mantiene quella sorta di ambiguità morale da inusuale angelo della vita tra i moribondi. In sala dal 5 settembre.