Chi volesse capire la Sicilia e più in generale il Meridione, a partire dalle cause più remote e profonde della sua struttura socio-economica, deve risalire all’inchiesta che Franchetti e Sonnino redassero agli albori dell’unità d’Italia. Allo stesso modo, chi volesse capire l’Abruzzo con tutta la storia delle sue genti e la cultura intimamente connessa con il carattere montuoso del suo territorio e la predominanza dell’elemento naturale, può basarsi sul documentario della serie l’Italia vista dal cielo girato nel 1970. Folco Quilici, coadiuvato nella scrittura da Ignazio Silone (a proposito di qualità del servizio pubblico di un tempo rispetto agli autori odierni), raccontando Storia e storie abruzzesi si sofferma nel finale sulla realtà del Parco Nazionale. Tra i solo quattro Parchi italiani (con Gran Paradiso, Stelvio e Circeo), quello d’Abruzzo fu istituito nel 1923.
Tra diverse vicissitudini, con il regime fascista che nel 1933 sopprime l’ente di gestione autonomo, poi ricostituito nel ’51, si arriva alla gestione di Franco Tassi a partire dal 1969. Erano anni veramente difficili, in cui bisognava opporsi all’ondata di abusivismo edilizio e espansione urbanistica, all’aggressione indiscriminata del cemento, secondo un disegno speculativo che voleva la realizzazione di un grande comprensorio turistico-alberghiero che collegasse gli impianti di sci da Pescasseroli a Roccaraso. Le pressioni erano talmente forti che le lobbies dei palazzinari, trovando sponda in varie organizzazioni di allevatori e cacciatori, riuscivano a coinvolgere le comunità locali al punto da portare gli studenti in piazza a manifestare al suon di slogan del livello di “prima l’uomo e poi il lupo”.
A difesa di biechi interessi speculativi si insinuava l’idea (ancor oggi radicata in alcune sacche di ignoranza) di un falso antagonismo tra “sviluppo” e tutela della natura, quando è sempre più chiaro che il vero progresso delle comunità locali non può prescindere dalla conservazione del patrimonio paesaggistico e culturale. Ebbene, nel documentario Folco Quilici, presentando il Parco nazionale d’Abruzzo, fa un elenco delle specie protette con lupi, orsi, camosci ridotti a pochi esemplari e cervi e caprioli ormai in via di estinzione. Quel che è successo nei decenni successivi ha del miracoloso, a riconferma della forza e resilienza della natura abruzzese. Il Parco, a partire da quegli esperimenti pioneristici interessanti i piccoli borghi di Pescasseroli, Opi, Barrea, con la splendida esperienza di Civitella Alfedena, non solo ha resistito ma si è espanso nei territori delle regioni limitrofe fino a cambiare la denominazione in Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.
Intorno sono nati altri Parchi nazionali nel Gran Sasso, Maiella e tutto un sistema di parchi regionali e riserve naturali financo ridondanti, nessuno neanche lontanamente paragonabile all’originale come impatto sul territorio e rigore della ricerca scientifica. Allo stesso modo gli animali selvatici hanno lentamente ma inesorabilmente riconquistato territorio anche fuori dalle aree protette. Complice lo spopolamento delle zone interne montuose e, vorrei aggiungere con un pizzico di ironia, l’invecchiamento e caducità dei cacciatori che fortunatamente non hanno trovato ricambio nelle generazioni più recenti, chi come me frequenta le montagne abruzzesi ha potuto assistere alla proliferazione della selvaggina. Se una volta bisognava organizzare escursioni nel Parco per andare ad ammirare i camosci d’Abruzzo, oggi se ne trovano su tutta la catena del Gran Sasso e sulla Maiella. I lupi hanno ripopolato tutta la regione appenninica e molto oltre. Stesso dicasi per gli orsi, in numeri naturalmente più contenuti. La reintroduzione del grifone ad opera della (ex) Forestale sul Velino ha avuto un successo insperato e oggi se ne trovano colonie anche a una certa distanza (sul Monte Aurunzo sopra Petrella Liri, ad esempio). Aquile e altri rapaci minori sopravvivono nei loro ambienti. Volpi e cinghiali sanno adattarsi ovunque.
Veniamo ai cervi: fino a vent’anni fa era raro vederli solo nelle zone più impervie del Parco. Poi la proliferazione: personalmente, sul gruppo del Velino, ne vidi una mandria la prima volta sul “pratone” del Monte Cafornia, una sotto Passo Le Forche, poi nel vallone della Chiave. In seguito si sono espansi in tutte le montagne, dove è facile sentirne anche a notevole distanza il potente bramito emesso nel periodo autunnale degli amori. Da non esperto, credo che il motivo di tale successo vada ricercato nelle dimensioni, soprattutto del maschio adulto: più grosso e potente di un mulo, deve aver pochi nemici naturali, forse solo i lupi in branco possono attentare a qualche esemplare più giovane e debole. Quindi è vero che di cervi ce ne sono molti in diverse zone dell’Abruzzo interno, come si vede anche in diverse immagini postate sui social network da gente che ne sorprende qualche esemplare in giro per i centri abitati (soprattutto quando la neve ricopre la vegetazione delle maggiori altitudini o quando la siccità li costringe a scendere in cerca di acqua). Ma non è possibile trovare alcuna giustificazione alla balzana idea di abbatterne diverse centinaia, a legittimare un fenomeno del bracconaggio mai del tutto sopito.
Non capisco quali danni potrebbero apportare i cervi, che anzi svolgono una funzione di pulizia del sottobosco che può tornare molto utile in tema di prevenzione dagli incendi (sempre più frequenti e minacciosi con gli attuali cambiamenti climatici). Al contrario, chi blatera di numeri eccessivi dovrebbe ricordarsi che c’è una sola specie sulla terra che, con i suoi oltre 8 miliardi di individui, ha una capacità (auto)distruttiva capace di mettere a repentaglio la vita dell’intero pianeta.