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Strage Paderno Dugnano, lo psicoterapeuta Lancini: “Colpisce il profilo di normalità, i segnali vengono trovati sempre dopo”

“Se non si mettono in parola i conflitti, le emozioni che disturbano, la rabbia, la tristezza, purtroppo questi sentimenti possono diventare gesto. Per questo, come sostengo da tempo, dobbiamo essere in grado di tornare a una relazione basata sull’identificazione dell’altro, sul comprendere le ragioni dell’altro – che non significa dargli ragione – soprattutto figli e studenti”. È il primo commento che Matteo Lancini, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro di Milano (ultimo libro Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta, Cortina editore) fa sulla strage di Paderno Dugnano. “Oggi questo avvenimento terribile e devastante può essere l’occasione per parlare con i propri ragazzi, senza rimuovere i sentimenti, facendoli esprimere, legittimando la loro parola”.

Possiamo anzitutto rassicurare sul fatto che si tratta di episodi che non si verificano né tutti i giorni, né tutti gli anni?
Certo, sono quei casi che diventeranno “mitici”, anche se forse non come altri, come quello di Erika e Omar che stravolse l’Italia e di cui ancora si parla, anche perché era un omicidio di coppia e c’era una ragazza che utilizzava il coltello, una cosa davvero inconsueta. Ciò che colpisce qui è senz’altro il profilo di normalità. Un ragazzo che studiava e faceva sport, in questo senso capisco che ciascun genitore può chiedersi se una cosa simile può accadere anche a sé.

E qual è la risposta?
Guardi, i fattori sono sicuramente due. La famiglia c’entra, ma c’entra anche un contesto sociale con nuovi modelli di identificazione di ogni genere e tipo proposti da una società mass mediatica. Non possiamo cioè pensare di essere ai tempi in cui solo la scuola e la famiglia avevano in mano l’aspetto educativo. L’altro punto è che ragazzi di oggi si sentono soli in mezzo agli altri, vanno su internet per ridurre quote di dolore che sperimentano ogni giorno con gli adulti. Abbiamo dunque una necessità straordinaria di comprenderli, puntando tutto, come dicevo, sulla relazione, che non è fare proposte in base alle nostre angosce, ma far loro sentire che hanno possibilità di esprimersi.

Secondo lei le famiglie hanno gli strumenti per fare le domande giuste? Non sempre è facile.
Oggi non è facile in generale identificarsi con l’altro, farsi carico dell’altro. Di sicuro comunque, di fronte a ragazzi che sempre più usano strumenti violenti come i coltelli, provenienti anche da ceti socio-economici per nulla disagiati e marginali, esiste una enorme questione educativa. Però non serve dire che questi ragazzi hanno avuto troppo, che non sono abituati al No e alla frustrazione: è una narrazione propria solo di chi non ha mai incontrato gli adolescenti. Così come non possiamo dare la colpa, come faranno, ai social network e ai trapper, è un modo per lavarsi la coscienza. Dobbiamo farci carico di ciò che abbiamo creato, una società individualista dove è molto difficile parlare. Senza scuse.

Quindi accusare internet e i social network è sbagliato?
Guardi, io ho fatto audizioni in Parlamento in cui proponevo di chiudere internet per ragazzi e adulti e chiuderei i social network domani, ma non si può vietare internet e poi usarlo tutto il giorno; o avere una società dove il successo, la popolarità, il lavoro, la vita politica passa dai social e poi dire che i social fanno male.

È una domanda retorica che le faranno in molti: davvero non esistono “segnali”?
I segnali vengono trovati solo dopo, ma la verità è che quando un ragazzo coltiva un progetto omicida o anche suicida lo può negare. Per questo l’unico vero segnale premonitore può emergere da una comunicazione in cui si renda verbale il simbolo, detto altrimenti dove si trasformino gli stati d’animo del ragazzo in comunicazione, solo la comunicazione può farci uscire da questa crisi valoriale. E bisogna essere pronti a sentirsi dire ciò che non vogliamo sentirci dire, non ciò che invece abbiamo bisogno di sentirci dire. Dunque non è un problema di strumenti, ma di fragilità adulta, di adulti troppo concentrati su di sé. Ma vorrei dire una cosa positiva.

Prego.
Immaginiamo quanti gesti violenti sono stati sventati, ovvero non sono mai avvenuti, grazie alle domande giuste e scomode che magari i genitori la sera fanno ai figli. Non sapremo mai quanti sono, ma quando i ragazzi trovano la possibilità di comunicare rabbia e dolore, non necessariamente agli psicologi ma ai loro adulti di riferimento, o insegnanti, non c’è violenza.

Un’ultima curiosità. Lei ha detto che probabilmente non siamo di fronte a una psicopatologia.
Ci saranno approfondimenti e lo diranno coloro che avranno a che fare con il ragazzo. Quello che volevo dire, lavorando sul dolore degli adolescenti, è che spesso c’è chi sostiene che chi, ad esempio, si suicida è malato, ha un disturbo. Ma i sintomi negli adolescenti segnalano sempre un disagio e una sofferenza, non è detto che rappresentino una psicopatologia già manifesta. Al di là delle perizie che verranno fatte, derubricare come matto chiunque combini qualsiasi cosa serve ancora una volta a fare un’operazione che non aiuta chi ha un dolore ad esprimerlo. Proprio quello che servirebbe.