Walter Salles, il ritorno. A dodici anni dal suo ultimo film, On the road, e a venti dall’intramontabile successo mondiale sul Che, I diari della motocicletta, il 68enne regista brasiliano torna a Venezia a 23 anni dalla sua ultima volta (Abril desperacado, 2001). Questa volta con I’m still here/Ainda esou aqui è il turno di un film sulla memoria politica del Brasile, sul tragico rapimento da parte della polizia politica (DOI-CODI) e scomparsa dell’ex deputato laburista (non comunista), l’ingegnere Rubens Paiva (interpretato da Selton Mello) nel 1971 all’apice della dittatura militare nel paese. Del resto tra le criminali svolte dittatoriali dell’America Latina anni sessanta/settanta/ottanta sulle torture e uccisioni perpetrate negli anni di Castelo Branco&co si è raccontato poco, lasciando ai più brutali casi di Cile e Argentina maggiore visibilità. A Rio de Janeiro nel 1971, a ridosso di una brulicante spiaggia, in una bella casa vivono Paiva con la moglie Eunice (una monumentale Fernanda Torres) e i cinque figli (quattro femmine e due maschi).
L’atmosfera è quella di laica libertà di costumi e cultura, dischi a go-go, bagni e giochi sulla battigia, dribbling col pallone in mezzo alla strada, tavolate di cibo e amici, mentre Eunice mette in tavola un sufflè e un jack russel smarrito diventa la mascotte di casa. Tempo che Vera, la figlia più grande, parta per Londra a studiare e il cerchio del pedinamento si stringe attorno a Paiva, deputato destituito nel ’64 dal colpo di stato, dedito all’attività di ingegnere, ma comunque attivo clandestinamente nella resistenza quantomeno burocratica anti giunta. L’improvviso prelevamento dell’uomo dalla sua abitazione, il successivo tragico interrogatorio di Eunice e di una delle figlie, infine la scomparsa di Paiva che non verrà mai dichiarato morto (e mai dichiarato rapito ed interrogato dalla polizia) fino agli novanta, spinge la donna a rifarsi una vita: la famiglia si trasferirà a San Paolo e lei si laureerà in legge a 48 anni seguendo il caso del marito per ottenere giustizia nonché difendendo gli indigeni espropriati dell’Amazzonia.
Nonostante al centro della narrazione ci sia il vuoto creato dal rapimento di Paiva, I’m still here è un film totalmente al femminile, dove la Torres giganteggia per resilienza e compostezza, vestendo i panni di un’eroina civile indefessa, mentre attorno a lei crescono e interagiscono le sue coraggiose e impavide figliole. Salles, come sempre, imposta il suo cinema più politico e storico (vedi I diari della motocicletta) in un’ottica genericamente pop, spesso emotivamente grossolana, scartando i dettagli splatter di torture e arresti (il cappuccio in testa a madre e figlia è forse il gesto più ardito concepito nell’inquadratura), e concentrandosi più sull’evocazione del male e l’inquietudine dell’assenza (ma non per questo riuscendoci). Così come già era accaduto nel film su Che Guevara e Alberto Granado, valgono di più conoscenza storica e indignazione politica precedente al film che l’effetto su entrambe provocato dal film stesso. Del resto la piallatura degli spigoli radicali della storia a favore di un raccontino mitigato e superficialmente democratico è tratto caratteristico dei “riassunti” di Salles. Si veda a tal proposito come nessuna delle figlie del protagonista venga mostrata come militante armata nella resistenza cilena, fatto vero per il quale nella realtà scattò l’arresto di Pavia.