Oggi, 3 settembre, ricordiamo un uomo di Stato: un uomo che aveva gli alamari cuciti addosso. Il carabiniere figlio di carabiniere, Carlo Alberto dalla Chiesa. Anzi, il generale Dalla Chiesa o se volete prefetto Dalla Chiesa. Nella mia mente sono vivi due momenti, quando l’incontrai e poi, dopo alcuni giorni, purtroppo lo vidi morto.
Era l’inizio degli anni Ottanta e già Totò Riina, aveva dato inizio alla mattanza, facendo somigliare Palermo a Beirut per la quantità di morti ammazzati nel territorio palermitano. Il 30 aprile del 1982, Cosa nostra uccide Pio La Torre e il suo autista Rosario Di Salvo e lo stesso giorno, Carlo Alberto dalla Chiesa nominato prefetto, giunge a Palermo. Il giorno del duplice omicidio quando stavo facendo il sopralluogo, fui avvicinato da un collega della Mobile, che mi disse d’aver notato dal balcone di casa sua, un giovane somigliante a Mario Prestifilippo – killer ricercato -, che sostava accanto ad una moto di grossa cilindrata, proprio all’imbocco della strada dove poi avvenne l’agguato. Lo redarguii, perché avrebbe dovuto avvisare l’ufficio e comunque gli consigliai di fare una dettagliata relazione di servizio: ero all’antirapina e non fui coinvolto nelle indagini. Dopo alcuni giorni dall’omicidio, quel collega fu trasferito ai “servizi” e non lo rividi mai più.
Ho citato l’episodio del “giovane con la moto”, perché anche giorni prima dall’omicidio di Dalla Chiesa, era stato notato un centauro sostare innanzi la prefettura. Ma questa circostanza si sparse nei nostri uffici ad agguato consumato. Il generale Dalla Chiesa fece interrompere taluni comportamenti degradanti, radicati in alcuni strati della società palermitana, come la vendita abusiva del pane per strada, senza le necessarie precauzione igieniche. Occorre dire, che nel 1950 il capitano Dalla Chiesa aveva fatto servizio a Corleone, e, quindi conoscitore di usi e costumi di noi siciliani.
Una ridente mattina di agosto, con la mia pattuglia entro nel Porto di Palermo e rimanemmo basiti: Dalla Chiesa passeggiava solo come un cittadino qualsiasi. Invito l’autista – Paolo – ad invertire la marcia, mentre all’altro agente – Domenico -, suggerisco di stare in allerta. Ci avvicinammo al Generale ed egli intuendo che fossimo poliziotti o carabinieri, con un sorriso e col gesto del capo, ci faceva intendere che era tutto ok! Nell’altra uscita del porto, vedemmo il collega Domenico Russo che sostava accanto all’auto di servizio, lo salutammo e andammo via. Noi rimanemmo di stucco, perché alcuni giorni prima, con una telefonata anonima fatta alla Stazione carabinieri di Casteldaccia – paese del palermitano – si rendeva noto che innanzi alla caserma, era stata parcheggiata un’auto con all’interno due cadaveri, un “regalo per Dalla Chiesa”, disse l’anonimo.
Io ancora oggi rifletto su quella passeggiata nel Porto e sono convinto che Dalla Chiesa volesse sfidare Cosa nostra. Dopo qualche settimana da quell’incontro, Ninni Cassarà, ottiene il mio trasferimento alla sua Sezione, per svolgere indagini contro Cosa nostra. Mi assegna un giovane agente, Lillo Zucchetto. E proprio l’intero giorno del 3 settembre 1982 lo trascorro insieme a lui in un appostamento finalizzato alla cattura del capofamiglia di Villabate Salvatore Montalto, legatissimo a Riina. Cattura che si concretizza la domenica del 7 novembre 82 con un blitz nella villa del ricercato. La domenica successiva, ovvero il 14 novembre, Lillo Zucchetto viene assassinato: punito con la morte per aver osato profanare l’agro di Ciaculli.
Ritornando al 3 settembre, nella tarda serata nel fare rientro in ufficio, Cassarà vedendomi molto stanco e sapendo che ero senza auto mi fece accompagnare a casa da una volante. Giunto a casa, vidi mia moglie affacciata al balcone che m’aspettava. Stavo per scendere quando la Centrale lanciò l’allarme di “Sparatoria in via Isidoro Carini”. Rimasi seduto e dissi all’agente Enzo Sutera di aspettare per conoscere il nome della vittima. Dopo pochi secondi, una volante con voce concitata, comunicò che era stato ucciso Dalla Chiesa. Salutai col gesto della mano mia moglie e con sirena spiegata raggiunsi il luogo dell’agguato. Vidi il volto di Emanuela Setti Carraro, moglie di Dalla Chiesa, orribilmente sfregiato. Assassinarono anche il mio collega Domenico Russo. Quella notte, nessuno di noi andò a dormire, la fatica sparì: facemmo numerosi blitz senza ottenere risultati.
Andreotti non partecipò al funerale di Dalla Chiesa, disse che preferiva andare ai battesimi, piuttosto che ai funerali. Nell’omelia il cardinale Pappalardo, tuonò contro la mafia e lo Stato, paragonando Palermo a Sagunto. Il triplice omicidio cambiò metodi di lotta alla mafia? Niente affatto. Io c’ero e affermo che l’imbelle Stato stava a guardare e latitava, mentre le strade di Palermo si coloravano di sangue innocente: u canciò nenti. Un’ignota mano omaggiò il Generale, scrivendo in via Isodoro Carini: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Vero, morì la speranza dei cittadini onesti, ma crebbe quella della borghesia mafiosa palermitana e dei mafiosi stessi: Cosa nostra continuò ad uccidere con inaudita violenza compiendo anche le stragi di via Pipitone Federico (Chinnici), Capaci, via D’Amelio, Milano, Firenze e Roma.