Mostra del Cinema di Venezia

Festival di Venezia – Erotismo, visionarietà e perfino romanticismo, Queer di Luca Guadagnino è un film sorprendente

“Tu non sei frocio!”. Sesso, droga e 2001 Odissea nello spazio. Queer di Luca Guadagnino è un film sorprendente e di sincera autoironica intimità. Prendi il romanzo di William Burroughs dei primi anni ’50 e invece di passare dagli spappolamenti di Cronenberg fallo diventare un Guadagnino: ovvero erotismo, visionarietà e perfino un filo di romanticismo. William Lee (un Daniel Craig semplicemente da urlo) è un americano di mezza età con pistola in cintura, espatriato a Città del Messico.

Il suo è tutto un andirivieni tra locali gay, e meno gay, tra tentativi espliciti di abbordaggio di uomini, fiumi di tequila, quintali di oppio e tonnellate di sigarette. Il bello sconosciuto giovanissimo Eugene (Drew Starkey), spalle larghe e morbida falcata, è uno studente che tra un bancone e l’altro appare a William modello visione angelica e sovrannaturale. Il tentativo di agganciare il ragazzo avviene abbastanza facilmente, ma l’impetuosa e goduriosa consumazione della carne è tutt’altra cosa rispetto ad un sentimento più profondo che William sembra provare. Per tenerlo vicino a sé, il maturo americano propone al ragazzo un viaggio in Sud America alla ricerca dell’allucinogeno yage (l’ayahuasca) in quanto William ne tesse spasmodicamente le lodi legate allo sviluppo di presunti poteri telepatici.

Il tragitto verso l’Ecuador e poi la giungla è però lungo e periglioso, e si concluderà dinanzi ad una bizzarra dottoressa/maga che li inizierà al culto della portentosa e tossica radice. Dopo una corposa prima parte compressa all’interno di fumosi e sudaticci bar, scalcagnate camere da letto, in compagnia di un coro di “checche”, dove si evoca e si fa sesso con grazia come se piovesse, Guadagnino e lo sceneggiatore Justin Kuritzkes raccolgono lo spunto di Burroughs per una seconda e terza parte (e ancor di più nell’epilogo) che fluttua tra toni picareschi, dolenti, fantastico allucinatori. Insomma proprio nella sua impossibile prevedibilità, in questi vivaci scarti spazio-temporali in avanti, Queer dimostra di essere una di quelle opere creativamente libere e sfacciatamente aperte. Del resto Guadagnino affronta proprio come in uno specchio, oltre i testacoda anagrafici di Chiamami con il tuo nome, il tema dell’omosessualità come condizione sociale e dell’anima. “È uno di noi?”, si chiedono spesso i conoscenti di William nei bar rivolgendosi allo strano comportamento di Eugene che sembra frequentare anche donne.

“I Lee sono sempre stati dei pervertiti”, sottolinea William verso Eugene. Come se il protagonista fosse condannato ad un auto e ripetitivo isolamento del proprio orientamento sessuale e delle proprie indicibili pulsioni. Eugene è il punto di rottura di questa quasi grottesca e solitaria infelicità del protagonista, quella figura che permette a William di ragionare sul concetto di “disembody”, del disincarnare, del separare qualcosa dalla sua forma fisica e materiale. E sarà proprio l’assunzione dello yage a illuminare con una manciata riuscita di sequenze allucinatorie il rapporto tra i due uomini e la febbrile inquietudine del protagonista. Chiaro che il contrappasso della seconda parte (che comunque ha una scena di sesso anale) non può esistere senza una sensualità corporea esplicita e calda che Craig e Starkey sviluppano nella prima parte.

L’ipotetica dimensione dello scandalo passa da Craig che morde il membro eretto ma coperto dalle mutande di Starkey, poi dal sesso orale che gli pratica, infine dal successivo scambio di sperma da bocca a bocca tra i due. Guadagnino dimostra nuovamente una incredibile versatilità di registri espressivi, come di essere a suo agio più con i racconti disancorati dal presente, ma soprattutto nel riuscire a mimetizzare i propri riferimenti al pantheon cinefilo con una classe e una potenza sopraffina. Quell’epilogo che richiama il capolavoro di Kubrick e quel finale di lampi colorati nel buio non solo sembrano realmente l’ovvia chiusura di Queer, ma imprimono con poetica disinvoltura anche un fondo di commozione. Girato tra Cinecittà e l’Ecuador. Prodotto oltretutto per buona parte dai capitali italiani di Fremantle.