Cultura

‘Gaza ora. Messaggi da un caro amico’: lo spettacolo dell’AZ Theatre di Londra fa discutere

Si sta verificando un fenomeno inquietante e, a prima vista, inspiegabile. Più va avanti il massacro dell’esercito israeliano a Gaza a danno dei civili palestinesi (oltre 15.000 solo i bambini morti!), per non parlare delle enormi sofferenze inferte quotidianamente al resto della popolazione nella Striscia, e più sembra affievolirsi lo sdegno delle opinioni pubbliche in Occidente.

L’assuefazione, si dirà. In parte è sicuramente così. Purtroppo ci si abitua anche alla più grande strage di minori da molto tempo a questa parte. O al fatto che il cosiddetto “diritto a difendersi” dello Stato israeliano possa contemplare pure l’uccisione di 200 innocenti (duecento!) per liberare alcuni ostaggi (è successo qualche settimana fa e se n’è parlato pochissimo, non a caso). Ci si abitua anche alle quotidiane violenze dei coloni in Cisgiordania (600 palestinesi uccisi dal 7 ottobre 2023), che lo stesso Shin Bet, il servizio segreto israeliano, ha definito “terroristi”.

Ma c’è anche un’altra spiegazione per questa caduta di reattività. E sta nella vera e propria criminalizzazione preventiva di ogni posizione di duro dissenso verso la politica israeliana e il premier Netanyahu. Condannare la strage in corso nella Striscia, dichiararsi antisionisti, cioè contrari alla politica di potenza di Tel Aviv, tendente a estromettere tutti gli arabi dalla Palestina, significherebbe essere anti-israeliani, anzi antisemiti tout court! Un ricatto bello e buono che evidentemente sta producendo i suoi frutti.

L’ultimo esempio di questo atteggiamento ricattatorio lo trovo nella lettera del deputato leghista Federico Freni, pubblicata dal quotidiano “La Repubblica” il 26 agosto scorso senza alcun commento. La lettera parte da una battuta colta al volo in una farmacia romana (una signora avrebbe rifiutato un farmaco prodotto dallo Stato ebraico, dicendo che non aveva intenzione di dare soldi a “un assassino israeliano”), per lanciarsi in una filippica tanto appassionata quanto assurda, che suona l’allarme sul pericolo di un ritorno di fiamma dell’antisemitismo nel nostro Paese. Che c’è, c’è sempre stato, è innegabile (soprattutto tra le file della destra), e rischia di aumentare proprio a causa delle politiche scellerate del governo Netanyahu.

Parlare di “assassini” per Netanyahu e i suoi soldati si può, purtroppo. È un fatto che lo sono. Tant’è che varie istituzioni internazionali (dall’Onu alla Alta Corte di Giustizia dell’Aja) li stanno inquisendo per crimini contro l’umanità. Queste istituzioni sono anch’esse antisemite? Suvvia, un po’ di onestà intellettuale o almeno di buon senso. È la criminalizzazione di ogni forma di dissenso anti-israeliano che porta acqua al mulino dell’antisemitismo autentico.

Proprio perché il quadro è quello che ho rapidamente tratteggiato, appaiono tanto più necessarie iniziative come quella dell’AZ Theatre di Londra, che sta girando la Penisola da alcuni mesi con lo spettacolo Gaza ora. Messaggi da un caro amico, al quale ho avuto la fortuna di assistere alla fine di agosto a Milano, villa Scheibler, festival del teatro Carcano. Il progetto, concepito da Jonathan Chadwick, Ruth Lass e Iante Roach (con la direzione organizzativa di Tanita Spang), prevede che un folto gruppo di attori volontari (noti e meno noti, diversi in buona parte da una città all’altra) presti la sua voce alle pagine del diario tenuto a Gaza per molti mesi, dall’inizio dell’occupazione militare israeliana, dal drammaturgo palestinese Hossam al-Madhoun.

Hossam parla semplicemente della vita quotidiana nella Striscia dall’8 ottobre 2023: un inferno dantesco, fatto di disagi e privazioni indicibili, sofferenza, paura, sangue, morte, con la ininterrotta colonna sonora di droni, aerei e bombe, rumori di crolli, grida e pianti. Ma continuamente, grazie anche ai ricordi dei più anziani, la memoria del drammaturgo va all’indietro nel tempo, a ricordare altre azioni militari simili da parte di Israele, fino al 1948, l’anno del primo grande esodo forzato dei Palestinesi, noto come Nakba.

Alla fine delle letture, dal pubblico numerosissimo si sono levati interventi di grande forza e lucidità. Quelli che mancano al dibattito pubblico per le ragioni che ho ricordato. Il teatro ancora una volta aveva fatto quello che nessun’altra forma artistica sa fare nella stessa misura: trasformare un gruppo di persone in una comunità che discute, in un’assemblea, come preferiva chiamarla il grande Erwin Piscator, uno dei fondatori del teatro politico del secolo scorso.