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Nei pub di Londra post Brexit c’è un problema grave che rischia di metterli in ginocchio

Ogni volta che ritorno a Londra diventa una felice occasione per riannodare i fili di amicizie intrecciate nel tempo e ancora resistenti, innamorarmi di nuovo e ancora più fortemente dell’energia pulsante di questa splendida città e infine misurare con il termometro di diverse pinte lo stato di salute della birra inglese e in generale della vita dei pub.

Nella mia ultima trasferta agostana ero particolarmente curioso di sapere come avesse influito alla lunga la Brexit su quel settore dell’hospitality grazie al quale avevo imparato a conoscere la metropoli: a sette anni dal referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, è possibile oggi tracciare un bilancio sui numeri e non più sulla base di opinioni scaldate dall’emotività.

Prendiamo, ad esempio, i dati riportati dal serio quotidiano liberale The Independent; l’articolo non recentissimo ma sempre attuale ha in incipit una frase lapidaria, “La Brexit sta uccidendo l’industria dell’ospitalità”, come dimostra la chiusura in soli 3 anni di quasi 14mila locali con licenza (dove cioè è possibile vendere e consumare bevande alcooliche). Pub, hotel, ristoranti e altre attività che erano riusciti a sopravvivere al contraccolpo Covid lamentano un problema gravissimo che rischia di metterli in ginocchio: la mancanza di quel personale, qualificato e non, trascinato dai flussi migratori oggi sbarrati sulle scogliere di Dover.

Erano solo un anno fa 142mila i posti di lavoro a disposizione nel settore dell’accoglienza e del Food&Beverage ancora vacanti, con un tasso di disequilibrio tra domanda e offerta di manodopera del 6,2%, aumentato di oltre la metà rispetto al periodo precedente alla Brexit e che non aveva eguali in nessun altro settore produttivo della Gran Bretagna. Nel frattempo la situazione sembra essere leggermente migliorata: gli ultimi dati dell’Office for National Statistics registrano una discesa nel primo trimestre 2024 a 108mila posti disponibili su una capacità totale del settore di 2 milioni 800mila, per una percentuale di opportunità di lavoro inevase intorno al 4%.

Bene, queste sono le cifre; e le persone? Ho scambiato opinioni tra una pinta e l’altra con B., amico di vecchia data e manager di un pub in una delle zone della città più visitate dal turismo. “Ora è chiaramente difficile trovare persone che vogliano veramente lavorare”, mi dice mentre ricordiamo i tempi passati dietro al bancone, assieme ad altri italiani come me, spagnoli, francesi e polacchi. Quel bacino inesauribile di camerieri, cuochi, baristi si è ormai prosciugato a seguito delle barriere sempre più stringenti alle frontiere; ad oggi il personale è quindi in stragrande maggioranza inglese, a volte di seconda generazione. E lo scambio, in termini di servizio e professionalità, non sembra essere stato vantaggioso.

In mancanza dei volenterosi giovani europei di un tempo, disposti a barattare il sogno di un’esperienza londinese con turni faticosi ricompensati a salario minimo, tra le altre soluzioni si attivano meccanismi di compensazione frutto delle recenti innovazioni tecnologiche. Come Limber, piattaforma della “gig economy 2.0” dove domanda e offerta di specifici turni di lavoro si incontrano sotto il segno della massima flessibilità; da una parte i gestori dei locali, che in caso di improvvisa carenza di staff o di giornate particolarmente affollate possono disporre dei diversi profili caricati sul sito senza l’obbligo di assunzioni o contratti, dall’altra lo staff che può scegliere il turno, il locale o il tipo di lavoro che preferisce.

I pub d’altronde non soffrono eccessivamente la situazione del mercato occupazionale. Anzi. L’aumento dei prezzi, che rende Londra sempre più cara fino al punto di divenire inaccessibile a tanti (la pinta in centro è arrivata a costare fino a 8 sterline), consente ai locali di accrescere le entrate mentre in contemporanea i consumi di bevande scendono. Gli amici publican lo confermano illustrandomi dagli ultimi report interni un calo di volumi serviti del 3% pienamente compensati da un aumento medio dei prezzi dell’8%.

Insomma, mentre per colpa o merito della Brexit assieme a tutti gli altri europei stanno scomparendo gli italiani dietro ai banconi inglesi, sopra di essi la nostra bandiera (o una sua copia posticcia) sventola senza sosta: proprio nel mese di agosto Birra Moretti ha scavalcato la storica Carling come lager alla spina più venduta nel Paese. Un marchio che di italiano ha ormai solo il nome e lo stile dei baffi in etichetta, di proprietà della multinazionale Heineken e con diversi impianti di produzione tra i quali uno a Manchester: eppure, il successo dietro a questo sorpasso (ne sono convinti dagli uffici centrali del colosso olandese) nascerebbe proprio dalla capacità di avvicinare il bevitore allo “stile vita italiano … godendo dell’incredibile maestria artigianale” [sic!].

Ma tanto ci siamo abituati: le parole nebulose che ruotano intorno alle galassie delle appartenenze e delle nazionalità si usano quando servono e un tanto al chilo, per vincere i referendum o vendere un prodotto.