Moana, Cicciolina, Eva e … Riccardo. Diva futura è il film sul mondo del porno che non ha nulla di pornografico, anzi quasi lo rende detestabile. L’opera seconda di Giulia Steigerwalt, terzo film italiano in Concorso al Festival di Venezia, è uno sguardo delicato e inedito, deliberatamente femminile, sul marasma libertario che travolse costumi e sessualità in Italia (e non solo) negli anni ottanta. Il prisma attraverso il quale Steigerwalt osserva una ventina d’anni di esibizioni erotiche e codici del nuovo porno è l’agenzia di casting Diva Futura, fondata a Roma da Riccardo Schicchi e Ilona Staller nel 1983.
Una via dell’hardcore molto soft, spettacoli dal vivo in localini da luci soffuse con pali e lingerie, fotografie bizzarre e istituzionali comparsate tv, perfino candidature politiche e Partito dell’Amore, Diva Futura è un ufficio tourbillon a condizione personale sulla Cassia con collegati gli appartamenti per le ragazze, angoli per i set foto e video, senza dimenticare l’eccentricità animalesca di Schicchi: pitoni, conigli, gatti e capre.
Il tutto tra un’apparizione delle dive più acclamate da Baudo e Costanzo, rivoluzionando il concetto di esposizione dei corpi (nudi) di donna e la propria poetica del porno. La base, e la voce fuori campo (all’inizio c’è quella di Schicchi, attenzione) è quella di Debora Attanasio, segretaria casuale di Schicchi, fedelissima assistente per anni tra lievitanti cachet, oggettistica bizzarra da set e cibarie per animali. Steigerwalt decide che Diva Futura deve iniziare con quel caos forsennato descrittivo tipico dei prodotti Groenlandia/Netflix dell’appena ieri – Mixed by Erry, L’incredibile storia dell’isola delle rose – poi appena la foga si quieta tra le pieghe di una narrazione temporalmente saltabeccante (1994, 2002, 2008, 1993, ecc..) il personaggio naif di Schicchi (un Pietro Castellitto tenero, gentile e come sempre comicamente istrionico) diventa comunque più piccino, quasi favolistico, rispetto alle tre più celebri dive dell’hard al suo arco: la prima moglie Ilona Staller (Lidija Kordic), la seconda Eva Henger (Tesa Litvan) e la solitaria imperiosa Moana Pozzi (Denise Capezza).
Sono le tre ragazze con il loro desiderio di emancipazione personale e sessuale, con la volontà di affermazione della propria identità liberata, con le loro fragilità affettive ed umane, a prendere più primi piani tra le facce (di corpi se ne vedono pochi e molto standardizzati su un’idea vuota di bello) della “famiglia” schicchiana. Così mentre Debora (Barbara Ronchi frisè) e Schicchi sono una sorta di duetto più leggero e comico (sono loro i fuggiaschi buffi delle retate che chiudono Diva Futura), Cicciolina ed Eva si ergono a paladine di una professione pubblica che necessita di limiti nel privato e familiare (la riluttanza della Henger nel fare porno è proverbiale e ritratta con garbo) mentre su tutti svetta la malinconica, tragica indipendenza di Moana a cui la Capezza offre un’interpretazione, praticamente mai supportata da dettagli corporei, di preziosa intensità.
Del resto la questione centrale del film è tutta sul dualismo dialettico della poetica pornografica sul finire dei novanta: coroncine di fiori sulla testa di Ciccolina o “teste delle attrici che fanno sesso infilate nel cesso”? L’indicazione è chiara e a Budapest a qualcuno fischieranno le orecchie. Il mondo “professionale” della sessualità liberata secondo Steigerwalt però è questo: un soft porno, più erotico che altro (“le opere d’arte di Schicchi”) confrontato alla violenza dominatrice del maschio che finirà diretta ed estrema nell’online. Un cinema in fondo incline al moralismo anche se per nulla bacchettone (la presenza di preti nei locali hard e le bustarelle prese dai parrochi sono inequivocabili), non proprio gioioso nel ricordare il percorso emancipatorio femminile schiacciato su quello maschile, con l’eccezione preziosa proprio della figura di Schicchi, talvolta quasi metaforicamente impotente di fronte a cotanto liberato desiderio.