Il 29 agosto per la prima volta in un lustro il suo ministro degli Esteri, Hakan Fidan, ha incontrato i suoi omologhi europei nel tentativo di rilanciare i rapporti dopo anni di screzi e sgarbi reciproci. Ieri, poi, Ankara ha ufficialmente confermato di volere entrare nei Brics, l’organizzazione delle economie emergenti che include Brasile, Cina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, India, Iran, Russia e Sudafrica, guidata da Vladimir Putin e Xi Jinping, che sullo scacchiere internazionale fa da contraltare al blocco occidentale Nato-Unione europea. La Turchia è il primo paese dell’Alleanza atlantica a chiedere di farne parte. E’ l’ultima mossa di Tayyip Recep Erdogan.

“Una volta Erdogan disse: ‘Ankara porrà la sua bussola sugli interessi della Turchia e nel mondo si muoverà in ogni altra direzione nella quale avrà interessi’. Alla luce di questa massima possiamo leggere anche questa mossa. Con questa sua ultima provocazione sta cercando di ottenere un vantaggio”, spiega Nima Baheli, analista geopolitico e di intelligence, già funzionario superiore alla Presidenza del Consiglio. Tra i paesi dei Brics la Turchia ha forti relazioni economiche forti con la Cina, la Russia e l’Iran, mentre l’Unione europea resta il suo principale partner commerciale. “E’ questa la chiave. Erdogan è bravo a distinguere tra retorica e pratica, sembra un libero battitore anche se resta schierato con Europa e Nato. La sua bussola è rimasta sempre puntata più verso l’Occidente che verso l’Oriente”.

Innanzitutto da un punto di vista economico. “Le faccio un esempio. Iran e Turchia hanno un knowledge di tutto rispetto nella costruzione dei droni. Mentre quelli iraniani sono più elementari da un punto di vista tecnico e costruttivo, la Turchia utilizza molta tecnologia prodotta nei paesi dell’Occidente e non potrebbe fabbricarli senza la cooperazione di questi ultimi. Questi droni poi li vende agli altri Paesi proprio grazie ai buoni rapporti che ha con gli alleati della Nato. Non solo. Da qualche tempo Ankara sta costruendo nuovi sistemi d’arma che finora non aveva mai costruito, e ovviamente intende venderli agli Stati dell’Ue e della Nato. E ora forse anche ai Brics”. E’ questa una delle principali chiavi di lettura della richiesta: “In Oriente Erdogan cerca nuovi mercati per i suoi droni, i suoi carri armati e i suoi nuovi prodotti militari. E tenta di trovare anche nuovi investimenti, quelli di Pechino ad esempio”.

Si muove come l’acqua, Erdogan: come il liquido penetra i materiali porosi infilandosi tra gli interstizi, così Erdogan persegue il suo interesse in ogni direzione in cui non sia limitato da vincoli geopolitici di rango superiore. Ed è al tavolo negoziale che il “sultano” ha sempre mostrato la propria bravura: “Nel 2017 comprò missili S 400 da Mosca ed è riuscito a ottenere dall’America gli F16 della Nato – ricorda l’analista -. Nel 2016 ha chiesto la revisione dell’accordo doganale del ’96 con l’Ue e da allora sta ancora aspettando. Anche il dialogo sulla liberalizzazione dei visti avviato nel 2013 su richiesta di Ankara non è ancora approdato a nulla. Per non parlare del cammino di adesione all’Unione europea. Ora è probabile che voglia utilizzare la domanda di adesione ai Brics per fare pressione su Bruxelles e tentare di sbloccare uno di questi fronti”.

E i tavoli su cui gioca sono molteplici: “Ha rapporti solidi con la Russia, ma sta rafforzando anche quelli con l’Ucraina. E ha lo stesso atteggiamento anche sullo scacchiere mediorientale. Oggi vedrà il presidente egiziano Al Sisi ad Ankara e, nonostante le minacce e la difesa di Hamas, dopo l’inizio della guerra a Gaza non ha interrotto gli scambi commerciali con Israele. In questo momento, poi, sta cercando di prendere il posto dell’Iran nella crisi, non in ottica negoziale perché quel ruolo è svolto dal Qatar, ma proponendosi agli occhi del mondo arabo come nuovo difensore dei diritti dei palestinesi”.

Il tutto nel solco del tradizionale multilateralismo di Ankara. “La Turchia può diventare un paese forte, prospero, prestigioso ed efficace se migliora allo stesso tempo le sue relazioni con l’Oriente e l’Occidente”, ha detto il presidente turco a Istanbul nel weekend. Ma nel suo discorso ha introdotto anche una variabile: “Non dobbiamo scegliere tra l’Unione Europea e la Shanghai Cooperation Organization come alcuni sostengono. Al contrario, dobbiamo sviluppare le nostre relazioni con entrambe queste e altre organizzazioni su una base win-win”. Il riferimento è al meccanismo di cooperazione formato da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan nato per contrastare le principali minacce alla sicurezza regionale, “il terrorismo, l’estremismo e il separatismo”, al quale la Turchia aveva chiesto di aderire nel 2022. Nel caso in cui Ankara dovesse entrare nella “Sco” tuttavia la questione cambierebbe, e di molto. A differenza dei Brics, alleanza geostrategica alla cui base ci sono logiche eminentemente economiche, la Sco può essere considerata una sorta di “Nato orientale“.

L’ultimo summit annuale dell’organizzazione si è tenuto il 3 e il 4 luglio ad Astana, in Kazakistan, Erdogan era presente nel ruolo di “ospite” e nell’occasione il “sultano” ha ribadito “l’impegno del suo Paese a rafforzare i legami con il blocco”. “La Turchia ha il secondo esercito più grande della Nato dopo gli Stati Uniti – prosegue Baheli -. Ankara utilizza sistemi d’arma occidentali dei quali ha a disposizione dati e ha con gli alleati interscambi di intelligence: se in futuro dovesse entrare nella Sco avrebbe accesso ai sistemi orientali e si porrebbe un problema di lealtà tra l’utilizzo di informazioni Nato e l’appartenenza a un’organizzazione come quella di Shanghai che è anche militare. Si troverebbe, cioè, nel bel mezzo di un vero conflitto d’interessi”. Finendo inevitabilmente per spostare l’ago della sua bussola verso Oriente: “In quel caso Putin potrebbe parlare di una quasi vittoria, se non altro avrebbe creato un problema alla Nato”.

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