Bidja è morto, viva Bidja! Abdul Rahaman al Milad, questo il suo nome, è stato ucciso domenica scorsa in un agguato all’uscita dalla sua Accademia Navale a Janzour, città costiera della Tripolitania. Alto ufficiale della guardia costiera libica, Bidja è stato il principale trafficante di esseri umani della Libia nord-occidentale. Indagato dalla procura della Corte penale internazionale dell’Aja, è stato al contempo uno dei protagonisti e beneficiari del memorandum siglato nel 2017 tra l’allora governo Gentiloni e quello di unità nazionale di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj. Un patto poi rinnovato da tutti i governi italiani in nome del contrasto all’immigrazione irregolare. La giornalista indipendente Nancy Porsia è stata la prima a denunciare la commistione tra guardia costiera e trafficanti. In Libia dal 2011, dopo la caduta del regime di Mu’ammar Gheddafi ha raccontato la rivoluzione mancata, la guerra civile scoppiata nel 2014, i rivoluzionari che si trasformavano in miliziani e i passatori di migranti che lasciavano il posto ai trafficanti come Bidja. Accusato di torture e uccisioni, imprigionato nel 2020 dal governo di Tripoli, subito rilasciato e nuovamente ai vertici della guardia costiera, al Milad ha saputo sfruttare le opportunità di un Paese alla deriva, ma sopratutto gli interessi dell’Europa e dell’Italia con la quale ha avuto rapporti diretti.

“Nel 2021, quando Bidja accetta di guidarla, l’Accademia Navale è un rudere che lui decide di ricostruire a proprie spese grazie ai proventi dei suoi traffici, guadagnandosi rispetto e silenzi. La guida dell’Accademia è un ruolo più defilato dal quale gestire il suo potere, una scelta non scontata tanto che credevo si fosse messo al riparo dai molti nemici che si era fatto. Non è stato così, e l’agguato a colpi di mitra conferma lo stato mafioso in cui versa la Libia”, ragiona Porsia, sulle tracce di Bidja fin dal 2015. “A metà di quell’anno iniziai a concentrarmi sulla rete a ovest di Tripoli e a ricevere informazioni su questo ufficiale della guardia costiera e i suoi cugini, che a Zawiya controllavano il contrabbando del diesel e il traffico di esseri umani”, spiega ripercorrendo i passaggi del suo ‘Mal di Libia, i miei giorni sul fronte del Mediterraneo‘ (Bompiani, 2023). “Tutte rivelazioni che mi furono confermate da una fonte primaria, un alto ufficiale della guardia costiera”. A cambiare la posta in gioco era stato l’interesse dell’Europa a finanziare il contrasto all’immigrazione. Ma bisognava superare il limite posto dalle condanne dalla Corte europea per i diritti dell’uomo per i respingimenti operati dall’Italia nel 2009: perché funzionasse, a intercettare in mare le persone, riportarle in Libia e detenerle nei centri per migranti dovevano essere i libici. E per farlo andavano pagati. “Tanto che il business dei viaggi passò in secondo piano, appaltato a personaggi minori o addirittura improvvisati, com’è ancora oggi. Il vero affare erano diventate le intercettazioni e le detenzioni sovvenzionate dall’Europa”, spiega Porsia al Fatto.

“Avevo visitato il centro governativo di Zawiya, chiuso dopo tre attacchi inscenati dal clan di Bidja perché l’unico a restare operativo fosse quello aperto illegalmente dalla sua rete”. Grazie all’incarico istituzionale nella guardia costiera, Bidja e i suoi avevano il controllo di tutta la filiera. Non a caso nel 2017, come racconterà due anni dopo Nello Scavo su Avvenire, l’allora capitano Bidja viene invitato in Italia per partecipare a riunioni con funzionari italiani, visitare il Centro per richiedenti di Mineo e gli uffici della Guardia costiera a Roma. Fatti che nessun governo italiano ha mai voluto chiarire, nonostante il nome di Bidja fosse finito nella black list del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a due sole settimane da quel viaggio. Nonostante le indagini della procura di Agrigento e quelle della Corte penale internazionale avviate grazie al lavoro di Porsia. “Sono diventata la nemica numero uno di Bidja che nel 2019 ha minacciato me e la mia famiglia via social, citando nome e cognome di mio figlio che allora aveva due anni, la stessa età che ha oggi suo figlio”, ricorda la giornalista, che dopo l’uscita della sua inchiesta ha rischiato di essere rapita, ha dovuto lasciare la Libia e da allora si è vista negare il visto per rientrarvi. Ma c’è di peggio: “L’Italia sapeva dei pericoli che correvo, ma non fece nulla per proteggere me e il mio lavoro”. Al contrario, nel 2021 scoprirà che la procura di Trapani, quella delle indagini sulle Ong, nel 2017 l’ha intercettata per sei mesi “sebbene non fossi tra gli indagati”.

Tutto a causa di un’inchiesta dall’incredibile tempismo. “Il mio lavoro e così la mia interlocuzione con Bidja per tentare un incontro che poi non ci fu, si svolgevano mentre il governo italiano intesseva il memorandum: stavo provando a denunciare gli interlocutori con cui l’Italia trattava”. Ora che Bidja è morto, spiega, “rimane l’amarezza di essere stata tradita dallo stesso sistema democratico di cui faccio parte”. Quanto alle sorti della Libia, “un’esecuzione mafiosa non può che confermare la condizione del Paese: chiunque sostituirà Bidja sarà come lui se non peggio”. Al contrario, l’attuale governo italiano ritiene che il Paese sia cambiato e che le condanne, anche in Cassazione, delle navi che negli anni passati hanno riportato in Libia i migranti salvati nel Mediterraneo siano superate dall’attuale contesto, “migliorato anche grazie al sostegno dell’Italia e dell’Europa”, ha dichiarato il ministro dell’Interno Matteo Piatedosi che non manca mai di ringraziare la guardia costiera libica per le migliaia di persone intercettate e riportate nei centri di detenzione. “Certo, bisognerà capire chi sostituirà Bidja perché il suo era un ruolo chiave: decideva i luoghi di sbarco dei migranti intercettati, dove sarebbero finiti e quindi chi avrebbe ricevuto i finanziamenti”, spiega Porsia, che avverte: “Il suo omicidio incrocia anche interessi internazionali”.

“Ma non c’è bisogno di un erede vero e proprio perché ormai si tratta di un intero sistema, corroborato e suggellato anche nel forum internazionale tenutosi a Tripoli lo scorso luglio dove la premier Giorgia Meloni era in prima fila: chiedere ad uno Stato fallito com’è la Libia di gestire una materia delicata come la tutela dei diritti umani è come consegnare l’agnello al lupo”. E nella Tripolitania dove le milizie si spartiscono territorio e ministeri, i lupi non mancano: “Dagli Interni alla Difesa, tutti cercano di accaparrarsi la fetta di torta più grande, anche investendo nelle operazioni di pattugliamento a largo delle coste perché questo è il canale principale per prendere i fondi”. Per i migranti, assicura Porsia, “la situazione è solo peggiorata. Le prigioni libiche restano punti neri sulla mappa dove la detenzione è arbitraria e le persone sono numeri che le milizie rivendono al governo di Tripoli come all’Italia. Le torture e le violazioni sono costanti, per uscire bisogna pagare e a farlo è spesso il trafficante che recupererà il denaro dal prezzo della traversata via mare, magari l’ennesima per la stessa persona”. Poco importa chi organizza il viaggio: “Le partenze sono funzionali al business di detenzioni e intercettazioni che a loro volta alimentano i viaggi via mare”. Bidja è stato tra i primi a mettere in piedi un cartello in grado di attuare il patto Italia-Libia alla uniche condizioni possibili in un Paese senza Stato. “Un’azione necessaria alla tenuta democratica dell’Italia – disse del memorandum l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti.

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