di Leonardo Botta

I sociologi si stanno interrogando, nelle ultime ore, su un curioso fenomeno: il pianto di un ministro in diretta tv. Dopo quelle di Elsa Fornero durante la conferenza di presentazione della manovra lacrime (mo’ ci vuole) e sangue del governo Monti (correva l’anno 2011), l’altro giorno è toccato a Gennaro Sangiuliano, reggente il dicastero della cultura, irrorare il proprio viso nel salotto tutto sommato amico e accomodante del Tg1.

Partendo dall’assunto che in entrambi i casi si sia trattato di pianti sinceri, vorrei disquisire brevemente dei diversi contesti in cui essi si sono consumati.

Per la Fornero si trattò, oggettivamente, di un cedimento emotivo a valle di un duro e concentrato lavoro di messa a punto della finanziaria resa necessaria dalle condizioni di incipiente default in cui il governo Berlusconi IV aveva lasciato l’Italia. Con Sangiuliano la vicenda è più fresca e ben nota: il ministro napoletano piangeva più prosaicamente per la pessima figura racimolata di fronte alla premier Meloni, a milioni di italiani e, ultima ma non ultima, alla propria moglie (mi verrebbe da dire di fronte a Dio, Patria e Famiglia), per aver scorrazzato tra ministero, parlamento e appuntamenti istituzionali vari colei che non ci voleva la zingara per indovinare fosse ben più di una sua semplice collaboratrice, ancorché priva di incarico formale.

E puntuali, dall’altro giorno, si moltiplicano gli sfottò e i meme. Del resto è sin troppo facile immaginare una (mi scuso se un po’ blasfema) assonanza tra le lacrime di Sangiuliano, napoletano di Napoli, e il sangue dell’omonimo santo patrono della metropoli partenopea, patria della sceneggiata. Certo è ora gioco agevole, un po’ come sparare sulla Croce Rossa, inveire contro un politico che nei primi tempi del suo mandato aveva mostrato una spavalderia che sì, strideva con il suo aspetto un po’ goffo e dimesso, prima che le reiterate gaffe (da Times Square a Colombo e Galilei) incrinassero quella sua pomposa alterigia, a cui l’affaire Boccia ha poi sferrato il colpo di grazia, come certificato da quei suoi singhiozzi trasmessi quasi a reti unificate. E c’è da giurarci che la produzione di commenti irridenti via social non scemerà facilmente (almeno fino alla prossima gaffe, sempre che la mancanza di nuovi scoop nella soap opera capitolino-pompeiana e il buon cuore della Meloni lascino il ministro al suo posto).

Del resto, lo stesso capitò con la Fornero, dai molti detrattori (Salvini e leghisti in testa) tacciata di “chiagniefottismo” per aver, con la sua riforma sulle pensioni, segnato la vita di milioni di lavoratori (molti economisti sostenevano e sostengono che altro non potesse fare in quel drammatico contesto storico-economico, ma questa è un’altra storia).
Più rispetto sembrò raccogliere, infine, un altro cedimento psicologico, quello di Giuseppe Conte nei terribili primi giorni della pandemia, quelli in cui i camion dell’esercito trasportavano mestamente bare in una Bergamo messa in ginocchio dal Covid. Ma non è difficile immaginare che, se quel pianto appena accennato dell’allora presidente del Consiglio fosse arrivato qualche mese dopo, quando ormai si erano scatenati, organizzati e compattamente schierati i no vax in servizio permanente effettivo, anche per lui gli improperi sarebbero arrivati copiosi come le gocce di pioggia in un acquazzone estivo.

Vabbè, tutto ciò è solo un modo un po’ sciocco per dire che, alla fine della fiera, anche i potenti, come i ricchi di una nota telenovela, piangono. Come direbbero nella città di Sangiuliano: “e chest’è”.

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