Il suo film più personale, emozionato ed emozionante, e forse anche il più bello. Con Il tempo che ci vuole, titolo tanto semplice quanto straordinariamente adatto alla “materia” affrontata, Francesca Comencini ha portato alla Mostra del Cinema di Venezia fuori concorso (e avrebbe meritato il concorso alla luce della mediocrità complessiva…) il suo lavoro più intimo e universale insieme, frutto di una maturità umana e professionale capace di mettere se stessa davanti allo schermo facendosi affiancare dalla figura per cui tutto di lei esiste: suo padre, il grande Luigi Comencini. Perché, spiega la regista romana, “dopo tanti anni passati a fare il suo stesso lavoro cercando di essere diversa da lui, ho voluto raccontare quanto ogni cosa che sono la devo a lui: ho voluto rendere omaggio a mio padre, al suo modo di fare cinema, al suo modo di essere, all’importanza che la sua opera e il suo impegno hanno avuto per il nostro cinema, all’importanza che la sua persona ha avuto per me. Forse, mi sono detta, forse ora sono abbastanza anziana ne sono capace, forse ora sarò all’altezza di questo racconto. Forse, ora, è arrivato il momento di dirgli grazie”.
Parole dense e importanti quelle della terzogenita di Luigi Comencini che si sostanziano con ancor più potenza nelle sequenze di quest’ultimo suo lavoro applaudito al Lido da un pubblico visibilmente commosso. Perché Francesca non ha scelto la via documentaria per raccontare il proprio rapporto col padre e col di lui cinema, bensì si è rivolta alla finzione, avvalendosi di due meravigliosi attori – Fabrizio Gifuni in stato di grazia così come Romana Maggiora Vergano – a interpretare rispettivamente suo padre Luigi e se stessa da giovane (mentre da bambina le presta il volto la bravissima Anna Mangiocavallo).
Il coraggio di mettere in scena una complessa relazione padre-figlia liberata da altri famigliari: davanti allo schermo sono esclusivamente lui e lei, sempre. Vuoi da soli, vuoi nel caos del set paterno di Pinocchio, o in altre rare circostanze di scene corali. Il ricordo, motore pulsante del film, non poteva evidentemente allargarsi ad altri, esigendo un’esclusività tagliente come il dolore che la sua tossicodipendenza – il capitolo più duro del film e ovviamente della sua vita – provocò nel padre, già anziano che la obbligò a trasferirsi con lui a Parigi per tutto “il tempo che ci vuole” a disintossicarsi.
Un rapporto di amore totalizzante fu quello che Luigi espresse nei confronti della “ribelle” Francesca in tale occasione, almeno da come la regista/figlia lo affronta nel film. Un’opera esemplare quest’ultima della regista di Carlo Giuliani, ragazzo e tanti altri nobili lavori: così complessa eppure capace di avvolgere e coinvolgere lo spettatore perché non solo nata dall’esperienza rielaborata delle tracce di memoria, ma anche perché raffinata attraverso il linguaggio del cinema che si fa materia dell’esistere. Già, il cinema come modo di stare al mondo, di fuggire anche, come diceva suo padre e come da lui le viene consigliato quando Francesca cade nell’abisso della droga, ovvero di una crisi identitaria che supera i normali dissidi adolescenziali. Del resto lui, che migrante in Francia da piccolo e adolescente si trovò sempre “diverso” per timidezza e sempiterno senso di inadeguatezza, non può che consigliare a sua figlia in preda alla tragedia “bisogna sempre tentare e fallire, e poi ritentare e fallire meglio”.
Costruito come una parabola esistenziale (la gioia dell’infanzia, l’inferno della tarda adolescenza, la risalita alla vita da giovane madre e regista) Il tempo che ci vuole è anche una cavalcata felice dentro al senso di fare il “mestiere del cinema”, tanto quello “popolare” di Luigi quanto quello più sociale, politico e “femminile” di Francesca, un viaggio dentro ai sogni, volando mano nella mano verso destini simili eppure diversi.
In uscita il 26 settembre prossimo per 01 Distribution, il film di Francesca Comencini risente anche di un’altra “eccellenza” nella storia del nostro cinema, ovvero quella di Marco Bellocchio che l’ha prodotto con la sua Kavac Film e montato attraverso l’arte sapiente di sua moglie Francesca Calvelli. Insomma, un connubio Comencini-Bellocchio che riesce a innalzare – finalmente – le sorti di tanta mediocrità dell’italcine contemporaneo.