Del puffetto infoiato, aggrappato alla gigantessa sbranatrice Maria Rosaria Boccia è stato detto tutto e di più. Tanto che perfino un mieloso cardinale di curia come Paolo Mieli si è fatto contagiare dal richiamo del pecoreccio a doppio senso, giocando sul fatto che la vistosa biondona in carriera, furibonda per le promesse non mantenute dal marinaretto ministeriale Genny Sangiuliano nonostante presumibili meriti d’alcova, risulta nativa di Pompei. Battuta da darsi di gomito con gli amici al bar.

Difatti, al di là degli sdegni di maniera, la trasformazione della vicenda pubblica in pochade rischia di essere sepolta sotto un’inarrestabile cascata di risate, nella messa in scena di una serie ininterrotta di gag da parte del formidabile set di buffi naturali assemblato dalla bulletta mannara Giorgia Meloni; perfetti per phisique du rôle: la maschera del petulante trombone e maldestro di Sangiuliano, quella dell’invitato alla festa per sbaglio Giovanni Donzelli, affannato coordinatore scoordinato, il questurino cattivissimo-me Matteo Piantedosi, la star dello slapstick (torte in faccia e scivolate ridicole) Francesco Lollobrigida; tutte performances svolte sotto lo sguardo protettivo del batrace agghindato a festa Carlo Nordio e la mascella deragliata della torva dark lady balneare Santanché, pseudonimo di Daniela Garnero impegnata nel remake della famiglia Adams. Pura commedia dell’arte.

Sicché il ridicolo distoglie l’attenzione dal significato inquietante dello spettacolo allestito: da un lato il consolidamento dell’ambiente che fa da palcoscenico alla vicenda Sangiuliano e – dall’altro – la mutazione genetica che ha trasformato la politica in farsa. Due questioni tra loro strettamente correlate.

Nel primo caso l’ennesima conferma che attorno al personale di parvenu baciati da improvvise vincite alla lotteria della politica si è venuto formando il milieu di un mezzo mondo che gli svolazza intorno per blandirlo e – al tempo stesso – ricavarne vantaggi materiali. Polli da spennare, giocando sulla facile manipolabilità dei loro pecari deliri d’onnipotenza, e da affossare quando non servono più. Gente a cui gli ozi romani hanno dato alla testa predisponendoli a bruschi/drammatici risvegli. Tanto che la parabola in corso dell’attuale ministro della Cultura a propria insaputa, sembra ripercorrere il percorso dalle stelle alle stalle – per esempio – di un Gianfranco Fini, colpito e affondato da biondine con fratelli in caccia di status symbol monegaschi.

Assai più sistemico il secondo aspetto di cui si diceva: il degrado del ruolo di un impegno pubblico virato ad ascensore per carriere individuali, alla conferma di attestati estetici da esibire. Di certo la villona con annessa piscina della premier proveniente dall’ambiente piccolissimo borghese della Garbatella, simmetrica a quella fiorentina di Matteo Renzi – stando all’Espresso (Emiliano Fittipaldi, 27 novembre 2019) – acquistata con “un prestito da 700mila euro del finanziatore di Open”. Ostentazioni di ascese sociali per cui Massimo D’Alema si impancava a yacht-men sul diciotto metri Ikarus. Scivoloni di gusto per arrampicatori di successo, che la posizione conseguita ha convinto di essere assolutamente insindacabili. Ma altrettanto non credibili quando si rivolgono alle proprie platee elettorali pretendendo di atteggiarsi a “uno come voi”.

Quell’estraniazione dal corpo sociale che ha come comprensibile conseguenza il ritiro di buona parte degli italiani sull’Aventino del non voto. Processo di lunga gestazione, che giunge da molto lontano. Dall’immediato dopoguerra, in cui le divisioni del mondo resero per decenni la Democrazia Cristiana l’insostituibile hub di governo e il Partito Comunista togliattiano un guardiano di rendite di posizione. Il combinato disposto che vanificò la competizione tra partiti, viatico – al tempo stesso – al controllo dei comportamenti e al ricambio del personale. Processo degenerativo accelerato nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica con l’avvento del grande corruttore Silvio Berlusconi, che giustificò una sfilza di presunti “consumatori finali”, buon ultimo il piagnucoloso Genny, della liceità della posizione come surrogato della seduzione e – insieme – torme di spregiudicati manipolatori del voto che tale comportamento fosse legittimato dal livello “bambino scemo” dei nostri connazionali. Prezioso insegnamento, per cui il ceto politico riconoscente ora eleva “lo sporcaccione di Arcore” (copy Maurizio Crozza), limitrofo alla criminalità organizzata, a grande statista consacrato dal francobollo commemorativo e l’intitolazione di un aeroporto.

Probabilmente Max Weber intendeva qualcos’altro nella sua conferenza del 1919 intitolata “La politica come professione”.

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