di Andrea Nobili*

Le carceri italiane sono una polveriera. Un’affermazione che definisce il drammatico stato del nostro sistema penitenziario, con il suo inaccettabile numero di detenuti suicidi, e che, tuttavia, rischia di essere poco più di un grido nel vento, se non si accompagna a una ponderata analisi della situazione, finalizzata a comprendere le cause del degrado, nel tentativo di provare a individuare i possibili rimedi.

Purtroppo, non sempre si parla di carcere con cognizione di causa, soprattutto nel contesto politico, ove, spesse volte, emerge un approccio ideologico bipolare che non aiuta ad affrontare il problema. Un tema così delicato richiede, invece, competenza ed equilibrio. Elementi assenti nel dibattito estivo che ha accompagnato l’adozione di provvedimenti poco incisivi, incautamente definiti da qualcuno “svuota carceri”; provvedimenti che non hanno contribuito ad alleggerire le tensioni presenti negli istituti penitenziari. Una lettura circostanziata del fenomeno carcerario suggerisce di prendere in considerazione alcuni punti critici.

A partire dal dato relativo al mutamento della popolazione detenuta, che presenta profili di maggiore complessità e vulnerabilità, rispetto al passato. Non solo a seguito delle ripercussioni di dinamiche migratorie o del progressivo smantellamento del nostro sistema di welfare. Ma anche per il combinato disposto dell’adozione di leggi che hanno reso la nostra giustizia severa con i reietti sociali e indulgente con chi ha maggiori possibilità economiche e relazionali. Come scriveva il noto filosofo Zygmunt Bauman, le carceri sono sempre più una discarica sociale.

Emerge, poi, l’assenza di una seria riflessione sulle strutture carcerarie, veri non luoghi che, in Italia, sono spesso risalenti nel tempo e in condizioni di degrado. Di certo non aiuta il loro miglioramento la farraginosa burocrazia penitenziaria, che impone tempi dilatati per realizzare persino i più semplici interventi di manutenzione. Se le nostre carceri sono invivibili, non è solo per il sovraffollamento, ma anche per la carenza di spazi adeguati, necessari, tra l’altro, per favorire i percorsi trattamentali di reinserimento sociale. Perché la qualità della vita dei soggetti detenuti, le loro prospettive di risocializzazione, sono connesse anche allo svolgimento di attività che svolgono una funzione rieducativa.

Tuttavia, il tema relativo agli interventi di edilizia carceraria incontra molte resistenze in sede politica, non tanto per la cronica carenza di risorse, quanto per un diffuso pregiudizio ideologico riguardo la realizzazione di nuove strutture carcerarie, anche se finalizzata a garantire condizioni di vita più adeguate. Il numero di detenuti in Italia è sostanzialmente in linea con quello degli altri paesi europei, dove però le condizioni sono meno scadenti. E forse per questo, all’estero, non si invocano soluzioni tampone, come l’adozione di provvedimenti di natura clemenziale, che mettono in discussione il principio della certezza della pena e rischiano di provocare cortocircuiti giuridici e sociali.

Parlare di diritti dei detenuti significa però anche affrontare il tema della qualità del lavoro degli operatori carcerari, a partire dagli appartenenti alla Polizia penitenziaria, perché carenza di organico e gestione di detenuti particolarmente impegnativi determinano fenomeni di burnout tutt’altro che trascurabili.

La valutazione delle falle del sistema penitenziario non può non affrontare un’emergenza specifica: la devianza criminale da parte di persone affette da patologie psichiatriche. Troppi i reati commessi da soggetti psicologicamente instabili, troppi i detenuti malati mentali. Patologie che non trovano adeguata risposta nelle attività dei presidi sanitari di tutela della salute mentale.

La crisi del carcere inizia fuori dal carcere, con le carenze di un sistema sanitario che non è in grado di prevenire e intervenire, nonostante l’intensificarsi di problematiche sempre più complesse. Il rischio è quello di consegnarsi all’idea di un carcere extrema ratio, dove collocare persone malate, di cui si accerta la pericolosità solo dopo la commissione di reati, anche gravi. Con la conseguenza che le nostre carceri, perennemente in debito di psicologi e psichiatri (ma anche di educatori), sono sottoposte ad un ulteriore elemento di stress, ospitando persone sofferenti che dovrebbero essere collocate in strutture sanitarie appropriate. Si aggiunga che la capienza nelle REMS (le strutture sanitarie deputate che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari) risulta gravemente insufficiente.

La questione è delicata e non può certo essere liquidata con poche battute. Ma va detto che la legge Basaglia, vera conquista di civiltà, richiede interventi di manutenzione straordinaria con l’adozione di nuovi paradigmi. Paradigmi che consentano di pensare a misure contenitive per quei soggetti psichiatrici pericolosi per evitare che siano proprio i loro familiari, disperati, a sollecitare provvedimenti restrittivi da parte della magistratura.

Considerazioni analoghe per quanto riguarda i SERD, Servizi relativi alle dipendenze, in affanno con le “prese in carico” delle persone che hanno problemi con gli stupefacenti. Limitata la disponibilità all’accoglienza nelle comunità terapeutiche e urgente la necessità di potenziare i percorsi di sostegno che vadano oltre la somministrazione del metadone.

Senza addentrarsi sul versante del difficile operato della magistratura di sorveglianza e degli uffici periferici ministeriali ausiliari (gli Uffici di esecuzione penale esterna), questi ultimi chiamati a svolgere un lavoro al di sopra delle loro forze, un accenno sulle possibilità di adottare alcune misure alternative alla detenzione, evocate dal Ministro della Giustizia. Difatti, il ministro Nordio, in uno dei suoi interventi, dedicati al contrasto al sovraffollamento nelle carceri, ha implicitamente accennato alle previsioni contenute nella Legge 199/2010, ipotizzando l’individuazione di spazi ove scontare pena inferiore a diciotto mesi, soprattutto per quei detenuti, stranieri, privi di dimora. Una proposta, che seppur mossa da buoni propositi, appare di non facile realizzabilità, ciò a prescindere dal problema dell’individuazione delle strutture, dei costi e dei controlli e dei rischi connessi. Va tenuto conto del fatto che i detenuti che potevano usufruire di tale possibilità lo hanno già fatto e che coloro che non la hanno richiesta o ottenuta non è solo per la mancanza di un domicilio ma per la presenza di ulteriori condizioni ostative.

Il tema, relativo alla popolazione detenuta di origine straniera è spigoloso, ma imprescindibile: trattasi di questione complessa sotto diversi profili, a partire del valore molto relativo del principio della rieducazione per tutte quelle persone che, scontata la pena, dovranno lasciare il territorio italiano. Gli addetti ai lavori sanno che la legge, per l’esattezza l’art. 16 della Legge 286/1998, prevede quale misura alternativa alla detenzione l’espulsione effettiva, per i cittadini extracomunitari privi di titolo di permanenza, al posto degli ultimi due anni di carcere; non è necessario alcun accordo con il paese d’origine del detenuto, che torna libero nel suo Paese, con divieto di reingresso in Italia per anni. Trattasi di uno strumento cui la magistratura potrebbe ricorrere più spesso e che, senza particolari difficoltà potrebbe essere “potenziato” introducendo piccoli ritocchi normativi che riducano i casi in cui la stessa non possa essere disposta.

La politica ha il dovere di tornare a occuparsi seriamente della questione penitenziaria, nel rispetto dei diritti dei detenuti e degli operatori penitenziari e del diritto alla sicurezza dei cittadini. Occorrono investimenti adeguati, che avrebbero una ricaduta positiva su più versanti, accompagnati da riforme di sistema, con interventi coraggiosi che abbiano la forza di confrontarsi con la durezza della realtà.

* Avvocato – ex Garante regionale dei diritti dei detenuti Marche

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