Negli ultimi vent’anni la rivoluzione tecnologica ha cambiato il mondo, su questo nessuno è in disaccordo. Ma il cambiamento va ben oltre la quotidianità, ad esempio la convergenza nel telefonino di servizi essenziali, dalla carta di credito al termostato di casa. I cambiamenti più significativi stanno avvenendo a livello economico e politico perché come la rivoluzione industriale quella digitale può riposizionare intere nazioni nella scala di potere mondiale. Tanto per capirci, prima della rivoluzione industriale i tre quarti del Prodotto interno lordo mondiale venivano prodotti in Cina ed in India, dopo il primato finì nelle mani della piccola Inghilterra.
Per ora Stati Uniti e Cina, le due più grandi economie al mondo, sono il teatro principale della nuova rivoluzione, ma la rapidità con la quale si muove l’innovazione tecnologica lo rende costantemente precario. Ed ecco perché c’è bisogno di proteggere la propria industria, renderla al tempo stesso insulare e predatrice. E la politica più adatta per farlo è il nazionalismo economico.
Il nazionalismo economico è uno dei pochissimi temi di convergenza delle politiche di Trump, Biden e la Harris. L’obiettivo è Make America Great Again, il famigerato MAGA che molti identificano con una politica super reazionaria, anti-aborto ecc. Ma questa è una visione riduttiva. Il MAGA è molto di più e nasce nella prima campagna di Trump come movimento antiglobalizzazione, ed in contrapposizione all’atlantismo della Clinton, ed ha come obbiettivo riportare negli Stati Uniti le industrie strategiche. È Trump che inizia la guerra dei microprocessori contro la Cina, che impone restrizioni e tariffe per proteggere l’industria nazionale. Biden continua lungo quel tracciato, anzi ne percorre un tratto ancora più lungo.
Il nazionalismo economico è però un controsenso nell’era del capitalismo globale e così lo si giustifica in termini di sicurezza nazionale. Il motivo per cui la tecnologica va protetta è per evitare che questa diventi un pericolo per la sicurezza nazionale, e cioè che venga usata per produrre armi intelligenti o per spionaggio. Venti anni fa, nel 2004, quando eravamo in piena globalizzazione, immaginare un connubio tra economia, nazionalismo e sicurezza nazionale ci avrebbe fatto sorridere. Ma il processo di transizione verso questa congiunzione era già iniziato, le sue tappe principali sono state l’11 settembre, il grande crollo del 2008, il Covid ed adesso le elezioni americane.
È infatti irrilevante chi vincerà negli Usa a novembre, entrambi i candidati daranno un’accelerazione al nazionalismo economico usando lo strumento della sicurezza nazionale. Sanzioni, tariffe e restrizioni alzeranno nuove barriere e potenzieranno le vecchie. Ed i risultati saranno, come quelli odierni, scarsi. Lo spionaggio e il contrabbando industriale non si può fermare con i decreti-legge. È di questa settimana la notizia che i microprocessori di Nvidia per il cloud costano meno in Cina che negli Stati Uniti, si tratta di quelli che non possono essere esportati in Cina. L’offerta è talmente elevata che i costi sono scesi sul mercato cinese.
Dove il nazionalismo economico invece potrebbe funzionare è nel far rientrare alcune industrie in patria, Joe Biden ha appena imposto una tariffa del 25 per cento sull’importazione delle gru cinesi negli Stati Uniti, si tratta delle gru che vengono usate nei porti per i container. La giustificazione ufficiale è che il sofisticato sistema digitale incorporato nelle gru potrebbe essere usato per spiare spedizioni militari, ma il motivo vero è quello di riportarne la produzione negli Stati Uniti.
Nel lungo periodo la contraddizione intrinseca del nazionalismo economico all’interno del processo di globalizzazione, ma anche in relazione all’atlantismo tanto celebrato dal vecchio Biden e dalla sua vice, verrà fuori. Il protezionismo per motivi di sicurezza nazionale non ha limiti, se oggi il pericolo viene dalla Cina domani potrebbe venire dall’Europa. Dato che la sicurezza nazionale è solo una foglia di fico, chi può dire che gli Stati Uniti non guarderanno mai al vecchio continente come una minaccia per la loro supremazia tecnologica?
Per ora, come ha detto un membro della Commissione Europea, l’Europa è un centro di reclutamento per gli Usa, tutti i talenti finiscono negli hub tecnologici, Silicon Valley, Salt Lake City, San Diego ecc. Se però noi europei decidessimo di creare il nostro hub e usassimo tutto quel talento per avviare la nostra industria tecnologica, le cose cambierebbero. Per ora questo è solo un sogno, ma chissà forse un giorno potrebbe diventare realtà.