Gli esperti della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale (SISEF) fanno il punto sulla forza del patrimonio delle aree verdi per proteggere l'ecosistema: "Dire 'piantiamo più alberi' per salvare il pianeta non è corretto".
“Le foreste, anche per il fatto che crescono lentamente, non possono risolvere la crisi climatica, che può essere contrastata solo con la riduzione delle emissioni. Insomma, dire ‘piantiamo alberi per risolvere la crisi climatica’ non è corretto, è un modo per deresponsabilizzarci. Inoltre, gli alberi fanno molto più che compensare carbonio in quanto ci danno legname, paesaggio, turismo, qualità dell’aria, acqua, insomma una serie di fondamentali servizi ecosistemici”.
È un messaggio chiaro quello che Renzo Motta, presidente della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale (SISEF), oltre che professore ordinario di Selvicoltura all’Università di Torino, lancia, proprio mentre ieri si è aperto a Padova il convegno nazionale dell’associazione, dal titolo “Foreste per il Futuro”, in cui si parlerà di prevenzione e gestione, incendi, riforestazione, biodiversità, sostenibilità e futuro delle foreste.
Aumentano gli alberi (in Europa) ma compensano sempre meno – Ma quante emissioni assorbono, oggi, le foreste? “Al momento, su scala mondiale, gli alberi assorbono un terzo delle nostre emissioni (in Italia il 7%), ma secondo uno studio recente questa funzione si sta riducendo. Tanto che nel 2023 questa capacità di assorbimento sembrerebbe praticamente azzerata , spiega Giorgio Vacchiano, docente in gestione forestale all’Università di Milano e sempre membro SISEF. Certo, in Italia il numero di foreste è in costante crescita, tanto che nel giro di un secolo sono passate dal 10% al 40%, perché non si tagliano più alberi per coltivare e pascolare. Ma, continua l’esperto, “è comunque fondamentale fermare deforestazione, specie quella delle aree tropicali ed equatoriali”. “Gli alberi aumentano ma la crisi climatica mette molte specie sotto stress, e questo significherà soprattutto che cambierà il nostro paesaggio, ad esempio quello delle vallate dolomitiche che, a causa del bostrico, sta rapidamente cambiando”, continua Renzo Motta.
Resilienza delle foreste e “tipping point forestali” – Al di là funzione compensatrice, l’altro interrogativo è per quanto le foreste saranno in grado di resistere al cambiamento climatico. Questo tema, centrale nel convegno, è senz’altro uno dei più preoccupanti. “Le foreste – spiega il presidente SISEF – resisteranno ma cambieranno. Se saranno abbastanza resilienti, cioè riusciranno a cambiare abbastanza velocemente per adattarsi alle nuove condizioni, ancora non lo sappiamo, abbiamo a disposizione diversi scenari di crisi – attualmente siamo nel più grave – ma è ancora difficile dire cosa accadrà tra cento anni in quanto non abbiamo possibilità di confronto con quanto è successo nel passato”. Secondo Giorgio Vacchiano, invece, esistono vari tipi di “tipping point”, o punti di non ritorno, forestali. Il primo ha a che fare con una perdita di produzione e di accrescimento, che può mettere in crisi le comunità montane , a causa della sofferenza delle piante. Il secondo “tipping point” consiste nel fatto che il bosco continua ad esistere dopo essere stato danneggiato ma con specie differenti, anche perché le foreste migrano verso climi migliori per la sopravvivenza. Ma la terza crisi più grave è quando la foresta rischia di sparire, in seguito ad una serie di eventi estremi o di incendi. “Un incendio forte, seguito da anni di siccità fa sì che gli alberi possano non tornare o tornare solo dopo moltissimo tempo, perché i nuovi semi hanno bisogno di acqua per germogliare. È successo nella macchia mediterranea, i querceti bruciati nei secoli non sono più riusciti a crescere, ma anche in Islanda, dopo la deforestazione fatta dai Vichinghi intorno all’anno mille: gli alberi non sono tornati”.
Gli incendi, tra natura e crisi climatica – Gli incendi sono uno dei fattori che preoccupano di più chi si occupa di selvicoltura. Anche su questo, il convegno è un’occasione per fare alcuni chiarimenti. “Gli incendi del Canada che tanto ci impressionano per le superfici che percorrono sono un processo prevalentemente naturale, le foreste nascono e muoiono”, spiega Renzo Motta: “In Italia, a differenza del Canada, l’aumento degli incendi è legato anche al fatto che aumentano le foreste, e che queste crescono sempre più vicine alle strade aumentando le probabilità di innesco”. A livello globale l’area colpita dagli incendi diminuisce un po’ ogni anno, ma il problema, nota a sua volta Vacchiano “è che abbiamo un aumento delle annate estreme, cioè con un picco di incendi, in particolare in aree hotspot per i mega-incendi, come California, Australia, Europa mediterranea, Siberia, Canada”. “L’unica prevenzione dei mega incendi”, continua il docente, “è il fuoco prescritto su grande scala, una volta scoppiati infatti spegnerli è difficilissimo. Solo che il fuoco controllato può essere fatto solo in periodi freschi e umidi che si vanno riducendo”. “In generale”, aggiunge Motta, “prevale la cultura dell’emergenza, una scelta culturale che dovremmo cambiare”.
Alberi in città, meglio un approccio meno “emotivo” – L’altro grande tema, sul quale i comuni si scontrano con le associazioni di cittadini e ambientaliste, è quello delle alberature urbane. Anche qui, le risposte degli esperti aiutano a chiarire alcuni aspetti. “Il tema degli alberi in città”, afferma Motta, “deve essere risolto con un approccio tecnico e non emotivo. La gestione degli alberi in città è diversa rispetto al bosco, gli alberi devono essere mantenuti giovani e vitali perché sono soggetti a molti stress e purtroppo, la questione della sicurezza per le persone esiste e si rischia, per non sostituire alberi o alberature ormai senescenti, di non fare nulla seguendo l’approccio del ‘not in my backyard”. Anche la questione dei costi è reale e per molti piccoli comuni rappresenta un problema”. “Rispetto agli abbattimenti”, dice invece Vacchiano, “credo che serva una visione complessiva, si possono togliere alberi anche per fare qualcosa di sostenibile come la linea di un tram. Tuttavia, spesso gli amministratori non sono preparati, solo raramente si rivolgono a tecnici e professionisti. Partire dal coinvolgimento e dalla corretta informazione dei cittadini sarebbe sempre auspicabile, al fine di trovare un compromesso comune”.
Il paradosso italiano: tante foreste e legno importato – Un ultimo ragionamento da fare, se si parla di foreste, è quello del rapporto con l’industria. L’Italia vive in un paradosso: nonostante l’aumento delle foreste importiamo circa l’80% del nostro fabbisogno, contribuendo alla distruzione di foreste equatoriali – anche se per fortuna l’Unione Europea intanto ha pubblicato il recentissimo regolamento EUDR sulle catene di approvvigionamento – mentre paesi come la Scandinavia o l’Europa centrale, ma anche la Germania usano le loro foreste in maniera molto più efficiente. Al contrario, noi in Italia usiamo “solo” 50 milioni di metri cubi (e quindi usiamo meno legno e molta più plastica e cemento) e per la maggior parte di provenienza estera “Certo, noi abbiamo le foreste più ‘protette’ d’Europa”, commenta il presidente SISEF “ma questa dipendenza dall’estero è un problema di sostenibilità. Se si bloccasse l’approvvigionamento da alcuni paesi fornitori, come in parte è successo con la pandemia e con la guerra in Ucraina, il settore foreste-legno (che rappresenta circa il 3,6% del PIL ed ha oltre 300.000 addetti) rischierebbe di fermarsi”. Necessario dunque, concludono gli esperti, un cambio di passo.