Nel novembre del 2008 la regina Elisabetta, in occasione di una visita alla celebre London School of Economics, sorprese tutti con una semplice, ma per i presenti molto imbarazzante, domanda: come mai nessun economista si era accorto della crisi finanziaria in arrivo?
La risposta ora la sappiamo: la crisi finanziaria è stata provocata proprio dallo sfrenato liberismo sbandierato dalla teoria economica mainstream, che comunque si è purtroppo abbondantemente ripresa come se nulla fosse accaduto.
L’episodio mi è tornato in mente leggendo il resoconto giornalistico del recente intervento del Presidente della Repubblica al forum The European House – Ambrosetti a Villa d’Este sul lago di Como, che raccoglie ogni anno il gotha autocelebrativo del piccolo capitalismo italiano. Il Presidente ha toccato nel suo intervento anche i temi economici ricordando che il debito pubblico italiano ha una mole imponente e che paghiamo di interessi più della Germania e della Francia messe insieme. Come è stato possibile un tale sfracello fiscale?
Credo che i presenti per un momento abbiano avuto un brivido di preoccupazione che però è presto svanito perché l’oratore ha deviato sapientemente, dando la colpa di questa catastrofe finanziaria all’elevato tasso di interesse. Spiegazione formalmente corretta, ma sostanzialmente errata perché l’elevato tasso di interesse non è la malattia, ma il suo sintomo evidente. Il tasso è alto, al di là delle tensioni geopolitiche mondiali, perché l’Italia ha un debito stratosferico e non viceversa. Debito aumentato notevolmente con il governo Meloni che nel 2026 raggiungerà quota 3.000 miliardi, con un costo di circa 100 miliardi da trovare ogni anno. Un record, per la premier che vuole fare la storia, poco invidiabile.
La causa dell’enorme debito italiano, naturalmente, sta altrove e va trovata nel populismo fiscale, nella promessa che i mali dell’economia si risolvano riducendo le tasse e creando debito. Senza considerare che gli oneri del debito sono semplicemente scaricati sulle generazioni future. Il debito è la forma più immorale di tassazione, anche perché quello italiano non si trasforma in investimenti sociali e produttivi ma viene usato per acquisire il consenso elettorale. Un populismo fiscale ecumenico che ha coinvolto tutti i partiti.
Potremmo parlare di una inedita armocromia della politica fiscale, dal rosso al verde, dal giallo al grigio e fino al nero, con l’azzurro berlusconiano che fa da sfondo unificante. Dopo la crisi del 2008, il primo a rompere il patto della prudenza fiscale è stato nel 2015 Renzi – si inizia dal colore rosso – con il suo bonus per lavoratori dipendenti che ci costa da allora 8 miliardi l’anno. Poi è arrivato il verde Lega con i privilegi fiscali per gli autonomi, con un buco stimabile in 3-4 miliardi annui. Poco in confronto al Movimento – siamo al colore giallo – che con il suo reddito di cittadinanza ha provocato un buco di sette miliardi, sempre annuali.
Anche il tecnocrate Draghi ha dato il suo contributo creando con la riduzione dell’Irpef e l’assegno unico per i figli un debituccio quantificabile in 7-8 miliardi, che però non gli è bastato per andare avanti. Poi è arrivata la mazzata finale con il fisco nero del viceministro Leo che ha travolto ogni argine tra fiscalizzazione degli oneri, condoni e riduzioni Irpef, superando abbondantemente i 10 miliardi annui.
Tutti insomma hanno contribuito, chi più chi meno, alla tragica Caporetto fiscale italiana del debito pubblico. Una stima a braccio potrebbe quantificare in 35-40 miliardi annui la voragine creata nelle casse dello stato dalla classe politica negli ultimi anni. Parafrasando Gratteri, potremmo dire che per risolvere il problema del debito pubblico italiano sarebbe sufficiente annullare tutti i provvedimenti fiscali da Renzi in poi.
C’è modo di raddrizzare questa disastrosa traiettoria populista del fisco italiano? È difficile che lo facciano i Parlamenti. La modifica dell’art. 81 della nostra Costituzione del 2012 che recepiva il Fiscal compact non è stata mai rispettata e nonostante le rigide regole europee il debito è lievitato. Un totale fallimento, dunque.
Ma non è solo un vizio italiano. Esemplare è il caso del Parlamento americano che ogni anno innalza l’asticella del debito che si concede, anche se il debito aumenta più con i conservatori che con i progressisti. Più stringente è l’azione delle istituzioni. Ne sa qualcosa il governo tedesco la cui manovra finanziaria del 2023 è stata stoppata dalla Corte Costituzionale per eccessivo debito. Anche i tedeschi hanno inserito in costituzione un limite al debito pubblico e la Corte lo ha fatto rispettare puntigliosamente.
In Italia la Corte dei Conti non ha questo potere e anzi è spesso delegittimata dai politici. L’unico che può intervenire efficacemente a questo punto è il Presidente del Repubblica dando in questo modo scacco alla politica nostrana. Il mio insegnante di diritto pubblico all’università spiegava a suo tempo – siamo abbondantemente nella prima Repubblica – che il Presidente, che ha ereditato nella sostanza le funzioni di garanzia del sovrano, può essere un semplice notaio oppure un arbitro decisivo, a seconda del clima politico del momento. Un tranquillo notaio quando la classe politica svolge egregiamente il suo lavoro, con maggioranza e opposizione che si confrontano lealmente nell’interesse del paese. Arbitro determinante quando la politica mostra una profonda crisi e allora spetta al capo dello stato indicare la via da seguire.
Mi pare che oggi, e non solo nel caso della finanza pubblica, ci troviamo in questa condizione. Il Presidente sulle rive del lago di Como ha strigliato i politici con una moderata predica. Vedremo se il messaggio sarà colto e se basterà per raddrizzare le finanze pubbliche travolte dal clientelismo politico sempre in azione. In caso contrario, non ho dubbi che il Presidente userà tutti i suoi mezzi di persuasione, anche quelli più drastici, perché oramai è rimasto l’unico argine istituzionale a difesa delle generazioni future.
Vedremo una legge di stabilità rimandata alle Camere per mancanza di copertura finanziaria? Non credo, anche se sarebbe la rivincita della vera democrazia contro le consorterie tossiche della politica nostrana, presenti e future.