Il pianista e compositore Giovanni Allevi da due anni ha un mieloma, la sua esibizione all’ultimo Festival di Sanremo ha commosso tutti, poi un tour estivo di qualche data e oggi a Il Corriere della Sera traccia un primo bilancio: “Le mani tremano ancora di più. A Locarno stavo per alzarmi e annunciare il mio definitivo ritiro dalle scene. Ma il pubblico mi ha dato forza: non gli interessava più la perfezione. Oggi riesco a controllare il tremore con un auto-inganno al cervello. Se mi tremano le dita penso che è bello, che sta andando in scena la mia fragilità, che sono autentico, sono io”.
Poi il ricordo di quando la malattia ha bussato alla porta di Allevi: “Ero per strada, a Roma, mi ha chiamato una dottoressa e mi ha comunicato la diagnosi. Mieloma. Una parola dal suono dolce, ma al tempo stesso insidiosa. La prima sensazione che ho avuto è stato lo straniamento, come se stessi vivendo dentro un sogno, come se fossi uscito da me stesso, come se lo dicessero a un altro. Ricordo il pavimento del marciapiede come se diventasse obliquo, come se fossi dentro una fotografia. Avevo perso il senso della realtà. Stavo già entrando in un’altra realtà. Quella dottoressa però è stata bravissima, le sue parole mi hanno colpito: la diagnosi è il primo passo verso la guarigione“. E ancora: “Il mio midollo osseo era malato. Erodeva le ossa dall’interno: impossibile descrivere il dolore (…) Tutto è iniziato con un mal di schiena durato mesi, l’apice alla Konzerthaus di Vienna, avevo finito di suonare e non riuscivo ad alzarmi, non riuscivo a staccarmi dallo sgabello: lì ho capito che c’era qualcosa di serio e grave. Provavo un dolore lancinante che ho contrastato con una terapia a base di un oppiaceo tristemente famoso, il Fentanyl, che è 100 volte più potente della morfina e che crea effetti collaterali che non avrei mai immaginato: per esempio la sensazione di avere la febbre a 39 fissa, mattina e sera, per mesi. Sfiancante”.
Oggi Allevi cerca di alleviare il suo dolore: “In modo spontaneo ho compreso che per accogliere il dolore, non per accettarlo, perché l’accettazione già contiene il senso della sconfitta, mi faceva bene tenere il mio gattino in grembo e respirare. Una pratica che portava a un rilassamento dei muscoli, a un’ossigenazione del corpo, a una diminuzione della percezione del dolore. Un oppioide naturale, il gatto. Così mi liberavo dei pensieri negativi, per arrivare a una sorgente vitale che è dentro ognuno di noi e che ci supera. Un’energia che tutto abbraccia e ci trascende: nella Natura mi immergo e ritrovo il contatto con un’energia ancestrale”.