Calcio

Venti anni di De Laurentiis al Napoli | Tra genialità, spacconate e cafonal, c’è un’unica certezza: lui ha vinto con i bilanci in attivo

I meriti superano di gran lunga i demeriti. Non si può che partire da una constatazione del genere per analizzare i vent’anni di Aurelio De Laurentiis alla guida della Ssc Napoli. Non si può che partire dall’evidenza dei meriti enormi perché in un clima da derby permanente e feroce (ascrivibile pienamente alla voce demeriti) tra fan modello groupie e avversatori modello hater si rischia di far passare tutto in cavalleria. E invece De Laurentiis ha l’assoluto merito di aver vinto a Napoli, tanto, in vent’anni: uno scudetto, 3 Coppe Italia, 1 Supercoppa Italiana. Avrebbe potuto vincere di più? Avrebbe potuto vincere di meno! E invece ha vinto, soprattutto un campionato di Serie A, in un nuovo corso calcistico dove oltre ai soliti noti, Milan, Inter e Juventus, non ha vinto nessuno. Da prima che arrivasse lui nel calcio. Ha vinto in un’epoca diversa e con un modello diverso da chi era riuscito a vincere prima di lui, Corrado Ferlaino, ma senza Maradona e senza quello che per anni è sembrato l’unico modello possibile di fare calcio: farlo a perdere.

E forse lo scudetto del 2023 passa anche in secondo piano rispetto al modello di fatto imposto da Aurelio De Laurentiis al calcio italiano: lo si guardava quasi come un alieno, Aurelio, quando nel 2004 prendeva il Napoli e si mangiava chi gli diceva che il pallone non è un’impresa come le altre, se si vuol fare a vincere. Che in quel caso i bilanci non si guardano, che le perdite sono fisiologiche e così via. Nel 2004 c’erano Moratti, Berlusconi, Sensi e le ricapitalizzazioni, oggi che pure gli sceicchi si defilano e vanno per la maggiore i fondi d’investimento, trovare uno che contesti quel che diceva Adl vent’anni fa sarebbe durissima. Anche perché oltre alla visione imprenditoriale della società di calcio in vent’anni Adl di “visioni” che poi si sono rivelate azzeccate ne ha portate altre: la necessità della panchina lunga per non mandare i calciatori in tribuna, le cinque sostituzioni in un calcio con ritmi sempre più alti, gli sponsor plurimi sulle maglie.

Non che le sue idee siano state tutte giuste: il calcio modello Nba chiuso ai piccoli e coi grandi club modello franchigie, ad esempio, poi si è tradotto nella Super Lega dove però ad essere piccolo e a rischio partecipazione era proprio il suo Napoli. E certo il personaggio è spigoloso e al netto di un intuito e una visione imprenditoriale da fuoriclasse assoluto, c’è la consapevolezza di ciò che porta pure effetti collaterali: il merito della stagione dello scudetto, consistente nell’aver intuito la fine di un ciclo e l’esigenza di una rivoluzione col sacrificio dei beniamini azzurri, si trasforma poi nel disastro successivo, quando col suono della lira ancora nelle orecchie e la convinzione che il tocco magico sia ancora nelle dita e solo nelle sue ne sbaglia una più di Bertoldo, finendo decimo e fuori dall’Europa dopo 14 anni di partecipazioni consecutive tra Champions e Uefa.

Un limite, quello della scarsissima disponibilità a derogare dalle proprie idee che forse ha contribuito a non rendere una straordinaria epopea vincente un vero e proprio poema epico: il suo Napoli campione d’inverno per due volte, nel periodo sarriano, non blindato da investimenti adeguati (prima Grassi e Regini, poi Machach) e dunque crollato anche per l’esiguità delle rose. E poi il carattere spigoloso che ha trasformato quasi sempre storie d’amore in bellicosi divorzi o rapporti logorati, dai direttori sportivi agli allenatori ai calciatori, da Marino a Spalletti, da Sarri ad Ancelotti, da Osimhen a Higuain. Vent’anni di scoperte, da Kvaratskhelia ad Hamsik e Lavezzi, di notti incredibili come quando si faceva a pezzi il Liverpool di Klopp, di giornate amare come quella a Firenze, di fanfaronate e genialità. Esagerato Aurelio, tra fughe in motorino e sfuriate leggendarie, effetti speciali e battaglie legali come quella con la Juve nel pieno del periodo pandemico: un presidente mai banale, nella simpatia e nell’antipatia, in un periodo in cui latita la figura stessa del presidente. Già, tra gli ultimi presidenti padroni, Adl, nell’era degli “ad” conto terzi dove i terzi sono nella maggior parte senza volto e in quanto tale amabile o odiabile ma sempre con la sua faccia: per altri vent’anni, magari.