Giustizia & Impunità

Basta una goccia di sangue e il Rivotril arriva in carcere. Quanto può reggere questo sistema?

Cosa succede se in una qualunque farmacia un balordo entra e pretende, per forza e senza ricetta, una confezione di Rivotril? Da lì a poco una pattuglia della Polizia arriva e ristabilisce l’ordine e la legalità. Invece, immaginate un luogo dove le premesse sono identiche ma è la Polizia a dover soggiacere alla richiesta dello stesso medicinale, persino adoperandosi acchè la pretesa sia esaudita nel più breve tempo possibile, ogni giorno. Benvenuti nei paradossi del sistema penitenziario italiano.

Nelle nostre prigioni, l’autolesionismo è diventato la valuta più preziosa, il sangue il lasciapassare per l’ebbrezza chimica. Un taglio sui polsi vale più di mille parole, una batteria ingoiata più di qualsiasi supplica. Qui, il Rivotril, il Lyrica, il Gabapentin, la “droga dei poveri” scorrono come acqua di fonte, mentre fuori, nelle vere farmacie, regna il rigore della legge. Gli agenti? Manichini della sicurezza in un mondo capovolto. Si muovono rimanendo fermi, paralizzati dal rischio di finire in tribunale; i loro cinturoni: fondine vuote, porta manette alleggeriti. “Sono vietate,” ammoniscono i vertici, mentre concedono lamette ai detenuti. Nell’era dei rasoi elettrici, qui si brandiscono ancora lame affilate saldate su penne bic. Coloro che disarmano chi dovrebbe mantenere l’ordine, armano chi quell’ordine lo infrange quotidianamente.

Il carcere è diventato l’anticamera dell’ospedale, il pronto soccorso, il suo banco di scambio preferito. Un referto rilasciato senza troppe domande, una ferita ben piazzata, e le porte si spalancano su ordine del direttore – lo stesso che autorizza le lamette e nega le manette. Il medico scrive la ricetta, l’ambulanza attende puntuale come un taxi verso il paese dei balocchi farmacologici. In questa scatola di una legalità alla rovescia, basta un gesto, una goccia di sangue, e il Rivotril arriva. I medici del pronto soccorso, assediati da vere emergenze, si trovano a gestire la processione dal carcere. La penna scorre sulla ricetta, tracciando non solo il nome dei farmaci, ma nuove dipendenze, nuovi e vecchi abusi.

Quanto può reggere un sistema che si piega al ricatto del sangue? Che trasforma il dolore in merce di scambio? Che è più fragile di una farmacia di provincia di fronte alle pretese di chi dovrebbe essere controllato?

La verità grida dalle celle, echeggia nei corridoi degli ospedali, sussurra nei tribunali. Ma al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria continuano a tapparsi le orecchie ed a chiudere gli occhi sulle statistiche degli “eventi critici”. Preferiscono l’illusione di un sistema che, solo sulla carta e nelle dichiarazioni dei politici, funziona ma non nella cruda realtà di un meccanismo che produce solo più criminalità, più dipendenza e più disperazione.

È questa l’Italia che vogliono? Un paese dove il sangue apre più porte delle chiavi, dove la sofferenza è la moneta di scambio e chi dovrebbe proteggere è molto più spaventato di chi viene protetto.

Domande ad oggi senza risposta, perché ogni giorno che passa, ogni taglio che si apre, ogni pillola inghiottita sono un passo verso un abisso da cui è sempre più difficile risalire. È tempo di agire, di cambiare, di riportare la legge dove la legge sembra averci abbandonato. Prima che il ricatto del sangue diventi l’unica lingua che lo Stato riesce a parlare dietro le sbarre.