Scienza

Crema solare, così chili di residui avvelenano i mari (e arrivano fino al polo Nord). Il progetto francese per studiare l’impatto e i rimedi

I bagnanti che si cospargono di creme solari sono uno spettacolo comune sulle spiagge. Ma dove finiscono tutti quei litri di lozione? E, soprattutto, che impatto hanno sull’ambiente marino? Sono le domande a cui vuole rispondere l’ampio progetto di ricerca “Micro beach“, da poco partito in Francia. Il luogo del “crimine” è la plage des […]

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I bagnanti che si cospargono di creme solari sono uno spettacolo comune sulle spiagge. Ma dove finiscono tutti quei litri di lozione? E, soprattutto, che impatto hanno sull’ambiente marino? Sono le domande a cui vuole rispondere l’ampio progetto di ricerca “Micro beach“, da poco partito in Francia. Il luogo del “crimine” è la plage des Catalans, a Marsiglia. Su questo arenile, da cui ogni giorno finiscono in mare più di cinquanta chili di crema solare (secondo il Centro nazionale di ricerca scientifica di Aix-en-Provence), lo scorso 28 agosto una ventina di ricercatori ha cominciato a scavare buchi nella sabbia per cercare “l’arma del delitto”, i residui di sostanza. “Si sa che, quando le persone fanno il bagno, dei residui di crema solare finiscono in acqua. Ma non si sa se questi si possono accumulare nel sottosuolo, sulle particelle di sabbia, a contatto con l’acqua del mare che si infiltra”, spiega il professor Benjamin Misson dell’Università di Tolone, che con altri colleghi dell’ateneo lavora al progetto, promosso dall’Istituto mediterraneo di Oceanologia e finanziato dall’Istituto di Scienze dell’oceano dell’università di Aix-Marseille. L’idea è cercare di misurare questi composti chimici e capire se esistono batteri capaci di degradarli. I ricercatori ripeteranno i prelievi in una giornata invernale, quando in spiaggia ci sono meno persone e l’uso delle creme solari cambia drasticamente. Ma non solo: “Intanto partiremo con un esperimento di laboratorio per studiare la biodegradazione naturale di un filtro UV organico utilizzato in parecchie creme solari”, racconta Misson. A questo scopo, il prossimo 24 settembre verranno effettuati nuovi prelievi sulla spiaggia. “Verranno indagate anche le capacità della comunità microbica marina presente in mare e nell’acqua sotterranea”, aggiunge.

Ma se per i risultati di questo ampio progetto dovremo attendere il 2025, gli indizi sugli effetti causati dai residui di queste sostanze già non mancano. A fine 2023 i ricercatori dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), insieme all’Università delle Svalbard, hanno scoperto tracce di creme solari al polo Nord, sui ghiacciai delle isole Svalbard. Per arrivare fin lì, i residui devono essere prima di tutto finiti in mare. Niente di più facile: basta un bagno dopo l’applicazione della crema, una doccia o semplicemente una sosta sulla sdraio. “Di conseguenza, i filtri ultravioletti (UV) – gli ingredienti attivi dei filtri solari, che riducono il quantitativo di radiazioni UV sulla pelle – sono stati individuati in acqua, nei sedimenti e nei tessuti animali in ambienti acquatici”, sintetizza una review del 2022 pubblicata negli Usa dalla National Academies Press. Questi filtri, peraltro, non si limitano a fermare i raggi UV sulla pelle: intercettano anche la luce in mare. “Ma ci sono organismi acquatici che hanno bisogno di questa luce per vivere”, osserva il ricecatore, aggiungendo che “alcune molecole possono avere una certa tossicità, come dimostrato in laboratorio”. Sotto accusa finiscono in particolare sostanze chimiche presenti nelle creme solari, tra cui avobenzone, oxybenzone, octocrylene ed ecamsule, che in uno studio del 2020 pubblicato sul Journal of the american medical association mostrarono tra l’altro di venire assorbiti sistematicamente dall’organismo e di penetrare nel sangue, con effetti ancora da capire. Altri composti nocivi per l’ecosistema marino contenuti nelle lozioni sono benzophenone-1, benzophenone-8, od-paba, 4-methylbenzylidene camphor, 3-benzylidene camphor, nano-titanium dioxide, nano-zinc oxide e octinoxate.

Nessuna forma di vita marina ne esce indenne. I coralli si sbiancano, subiscono alterazioni fisiche e genetiche; per le alghe verdi sono in gioco la crescita e la fotosintesi; i ricci di mare subiscono danni immunitari e riproduttivi; e ancora malformazioni nelle larve dei molluschi, riduzione della fertilità nei pesci con rischio di imposex, cioè di inversione sessuale. Inoltre i composti si accumulano nei tessuti dei delfini e possono essere trasmessi alla prole. Tutte creature a rischio di morte, e lo stesso vale per la posidonia, pianta marina tipica del Mediterraneo ed essenziale sia per l’ecosistema sia per prevenire l’erosione costiera e assorbire la CO2 dall’atmosfera. Sotto accusa, dunque, i nostri comportamenti: non a caso i ricercatori francesi hanno svolto un’indagine presso i bagnanti – il tipo di protezione usata, se la crema viene applicata prima o dopo il bagno, se viene preferito o meno il bio – e hanno scattato foto delle etichette dei prodotti per valutarne gli ingredienti. Prima ancora di conoscere i risultati di “Micro beach”, dunque, è bene agire per proteggere noi stessi e la vita marina: scegliere prodotti privi di ingredienti nocivi (peraltro vietati in alcune nazioni tropicali), stare all’ombra tra le 10 e le 14, non applicare la crema poco prima di entrare in acqua. Non dimentichiamo che la protezione di mari e oceani è l’obiettivo 14 dell’Agenda 2030 dell’Unesco: “Gli oceani del mondo – la loro temperatura, la loro composizione chimica, le loro correnti e la loro vita – influenzano i sistemi globali che rendono la Terra un luogo vivibile per il genere umano”.