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Sinner, il pasticcio Wada e le incongruenze sul suo caso: la mancata trasparenza danneggia sia il numero 1 sia la credibilità dell’antidoping

Quello che poteva essere rubricato a semplice incidente di percorso ha assunto contorni opachi: l'ultima tappa è la questione delle tempistiche del ricorso

Trasparenza: “La Wada opera in modo trasparente e si impegna a rafforzare ulteriormente questo aspetto delle sue attività”. Due righe dedicate all’impegno della cosiddetta “trasparenza”, scolpite sul sito della World Anti-Doping Agency (Wada), creata nel 1999, finanziata dal Comitato Olimpico Internazionale (Cio) e dai governi internazionali. Sede centrale a Montreal in Canada e ufficio di coordinamento europeo a Losanna, fondazione di diritto privato regolata dal diritto civile svizzero, un board composto da 42 membri – un terzo dei quali atleti o ex atleti – e un Consiglio esecutivo che il 12 settembre si riunirà a Belek, in Turchia. La “trasparenza”, evocata nei suoi principi fondamentali, è, purtroppo, quella che non si sta cogliendo nella storia legata a Jannik Sinner dopo il verdetto di positività-assoluzione annunciato il 19 agosto sul caso-Clostebol. La questione delle tempistiche dell’eventuale ricorso della Wada sulla sentenza di non colpevolezza emessa dall’Itia – l’agenzia indipendente del tennis – è l’ultima tappa di una vicenda segnata da diverse incongruenze. Il 9 settembre si attendeva la comunicazione riguardante la decisione di ricorrere o meno, da parte della Wada, nei confronti del provvedimento emesso dall’Itia, ma il 10 settembre, di fronte al silenzio totale, abbiamo scoperto che la data limite è quella delle 6 settimane: l’articolo 13, comma 2 del Codice antidoping, consente infatti alla Wada di chiedere un supplemento di documenti per fare le sue valutazioni. A quel punto, scatta una proroga, che non può però superare il limite temporale delle sei settimane dalla pubblicazione della sentenza per ricorrere o rinunciare. Tradotto: a fine settembre sapremo se il caso Sinner è davvero chiuso o se, invece, ci saranno colpi di scena.

Era così difficile, in nome della trasparenza, fare una comunicazione ufficiale, specificando che l’agenzia mondiale antidoping aveva chiesto un supplemento di documentazione e, quindi, le tempistiche slittavano? Pare di , visto il mutismo assoluto della Wada. Le ultime news sul sito dell’agenzia sono datate 9 settembre: si tratta dei complimenti ai tre membri del Consiglio degli atleti che hanno vinto medaglie durante i Giochi olimpici-paralimpici di Parigi 2024 e del consenso al rilascio dell’ex direttore generale dell’Organizzazione nazionale antidoping tunisina (ANAD), Mourad Hambli, “reduce da quattro mesi in prigione per aver tentato di sottostare alle conseguenze della mancata osservanza del Codice mondiale antidoping (Codice) da parte dell’ANAD”. Il caso Sinner non esiste per la Wada. Di più: zero riscontri quando si digita il nome di Jannik Sinner come parola chiave nel motore di ricerca del sito.

Che cosa dedurre? Più che una deduzione, è una conferma: la vicenda Sinner, numero uno del tennis mondiale e fresco vincitore degli Us Open, crea un forte imbarazzo nel sistema internazionale antidoping, sicuramente condizionato in parte dalla storia dei nuotatori cinesi nel 2021. Da un lato, la sentenza della ITIA, che ha assolto il campione italiano dal peccato di aver assunto in modo inconsapevole una sostanza anabolizzante. Dall’altro, le reazioni di chi, come lo stesso Novak Djokovic, ha sottolineato il doppiopesismo emerso in questo caso. Altri atleti, compresi calciatori, in vicende simili a quella di Sinner sono stati puniti. Il professor Alessandro Donati, figura simbolo della lotta al doping, è stato tra i primi a sottolineare uno dei punti chiave di questa storia: chi ha le risorse per affidarsi a un pool di avvocati di altissimo livello – Sinner, con i guadagni delle ultime due stagioni, ha un portafoglio adeguato a pagare le salatissime parcelle dei legali – riesce a difendersi in modo egregio, mentre chi non può contare su disponibilità illimitate è più debole di fronte ai tribunali sportivi. Donati ha anche ricordato un altro aspetto: la faciletrasmissibilità” del Clostebol attraverso le pomate, come il cicatrizzante Trofodermin nel caso Sinner. Basta una stretta di mano per ritrovarsi contagiati: secondo quanto comunicato dall’ITIA, le tracce di Clostebol riscontrate nel tennista erano infinitesimali.

Quello che poteva essere rubricato a semplice incidente di percorso ha assunto contorni opachi e non si può certamente dare colpa ai media che, per assolvere le corrette funzioni di svolgere una comunicazione corretta, hanno il dovere di accertare la verità, scavando e investigando. Il quadro di questa storia è una catena di incongruenze/stranezze/equivoci: 1) L’annuncio contestuale di positività-assoluzione; 2) La sentenza in cui non è stata chiesto un giorno di squalifica, ma è scattata una multa in denaro: se sono innocente, perché devo pagare? 3) La mancanza di chiarezza da parte della Wada sulle tempistiche dell’eventuale ricorso.

Questa situazione non fa bene a Sinner, costretto a dover convivere ancora con questo incubo e con le ombre che lo accompagnano, ma non fa bene neppure all’immagine, già discutibile, del sistema mondiale antidoping. Con una considerazione di fondo: il giusto garantismo che sta accompagnando la vicenda-Sinner è il contrappeso del giustizialismo emerso nel secondo presunto caso di positività di Alex Schwazer (2016), anche di fronte alla sentenza del tribunale di Bolzano e all’archiviazione del procedimento penale per “non aver commesso il fatto, ritenendo accertato con alto grado di credibilità che i campioni di urina sono stati alterati per ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta, come pure del suo allenatore, Sandro Donati”. Coloro che si indignano oggi di fronte al comportamento discutibile da parte della Wada sono, in alcuni casi, le stesse firme che condannarono con fermezza Schwazer, senza avere in mano il minimo riscontro.