Giustizia & Impunità

Annullato il processo all’Ilva dei Riva: “C’erano giudici da considerare parte lesa”. Si ripartirà da zero a Potenza con il rischio prescrizione

Non dovevano giudicare loro, forse perché “parti offese” del disastro ambientale contestato dalla procura o perché nel processo figuravano due giudici di pace tarantini tra coloro che si erano costituiti parte civile. Quindi ora il processo deve ripartire da zero. Le condanne sono cancellate, tutto è da rifare e da ridiscutere. La Corte d’assise d’appello […]

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Non dovevano giudicare loro, forse perché “parti offese” del disastro ambientale contestato dalla procura o perché nel processo figuravano due giudici di pace tarantini tra coloro che si erano costituiti parte civile. Quindi ora il processo deve ripartire da zero. Le condanne sono cancellate, tutto è da rifare e da ridiscutere. La Corte d’assise d’appello di Lecce – presieduta dal giudice Antonio Del Coco – ha annullato la sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto a carico di 37 imputati e tre società per l’inquinamento dell’Ilva di Taranto a causa della gestione della famiglia Riva. Si ripartirà da zero davanti ai giudici di Potenza. Con un rischio impellente per molti reati contestati finora dai magistrati di Taranto: la prescrizione.

La vicenda dell’incompatibilità era stata sollevata durante le prime udienze del processo d’appello da tre avvocati difensori – Giandomenico Caiazza, Pasquale Annichiarico e Luca Perrone – che avevano sottolineato come diversi magistrati vivessero negli stessi quartieri in cui abitano molte persone costituitesi parti civili durante il primo grado e considerate degne di risarcimento dal collegio. Le motivazioni mancano ancora, ma sembra essere questa la base della decisione che azzera la vicenda giudiziaria, insieme al fatto che già in primo grado si costituirono due giudici di pace tarantini e, solitamente, quando ci sono magistrati del distretto coinvolti, il processo viene spostato in altra sede. Ogni dubbio verrà sciolto solo tra due settimane, al deposito della motivazione.

In primo grado furono 26 le condanne nei confronti di dirigenti della fabbrica, manager e politici, per circa 270 anni di carcere. La Corte d’Assise stabilì sia la confisca degli impianti dell’area a caldo che la confisca per equivalente dell’illecito profitto nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva forni elettrici, per una somma di 2,1 miliardi di euro. La sentenza di primo grado, emessa il 31 maggio 2021, si chiuse con 26 condanne nei confronti dirigenti della fabbrica, manager e politici. I giudici inflissero 22 anni a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola. Il responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall’accusa come la ‘longa manus’ dei Riva verso istituzioni e politica e nel frattempo deceduto, fu condannato a 21 anni e 6 mesi, sei mesi in meno all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso. Ai principali fiduciari dell’acciaieria – Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli e Agostino Pastorino – considerati una sorta di “governo ombra” dei Riva furono inflitti 18 anni e 6 mesi di pena.

Mentre all’ex governatore della Regione Puglia Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso, fu inflitta una pena di 3 anni e 6 mesi. L’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido venne condannato a 3 anni. Stessa pena per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. Per l’ex consulente della procura Lorenzo Liberti una pena di 15 anni e 6 mesi. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato.

La vicenda legata al presunto disastro ambientale era deflagrata il 26 luglio 2012 quando venne notificato il decreto di sequestro degli impianti, firmato dalla gip Patrizia Todisco. Per quaranta giorni i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Lecce avevano filmato gli sbuffi dell’acciaieria più grande d’Europa, le nuvole di minerale, come chiamano a Taranto le polveri di ferro e carbone che viaggiavano verso il quartiere Tamburi dai parchi, allora scoperti, dove venivano stoccate in attesa di diventare acciaio. Il processo si era poi già interrotto una volta in fase di dibattimento ed era tornato in udienza preliminare. Ricominciato davanti alla Corte d’assise di Taranto – presieduta da Stefania d’Errico, giudice a latere Fulvia Misserini – era arrivato a sposare l’impianto accusatorio impostato da Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano, coordinati dall’allora procuratore facente funzione Maurizio Carbone.

Nelle 3.700 pagine, divise in quindici capitoli, con le quali motivarono le condanne, i giudici scrissero che Taranto era diventata come un “girone dantesco” mentre l’Ilva era in mano alla famiglia Riva, durante la cui gestione si consumava “razzismo ambientale”, quello che si manifesta quando “zone economicamente arretrate” vengono individuate “come luoghi dove realizzare grandi impianti industriali”, senza che “le istituzioni preposte ai controlli” esercitino “efficacemente le proprie prerogative”. E “senza alcuna considerazione” per la popolazione “costretta a vivere in un ambiente gravemente compromesso” ed “esposta a maggiori rischi per la salute”.

Per la Corte d’Assise, la capacità “di influenzare le istituzioni da parte dell’Ilva, facendo leva sul potere economico e contrattuale della grande impresa, ha reso per lungo tempo molto difficile l’accertamento dei crimini che si andavano nel corso del tempo perpetrando”. Seppur in passato ci fossero già stati processi in grado di restituire un “preoccupante spaccato” della grave situazione ambientale nel Tarantino, solo durante il dibattimento di Ambiente Svenduto “per la prima volta” era emersa “una visione unitaria della gestione illecita” da parte dei Riva, dei vertici aziendali e dei responsabili delle aree di produzione. Ma le loro parole, oggi, non hanno più alcun valore giuridico. Resta uno spaccato storico, ricostruito in decine di udienze e nelle parole dei testi ascoltate in aula. Per tutto il resto, bisognerà ricominciare daccapo. E molto, con ogni probabilità, verrà cancellato dalla prescrizione.

Lo spostamento, lamentano Alessandro Marescotti e Fulvia Gravame di Peacelink, “ha conseguenze gravissime per l’intera comunità tarantina” con un “allungamento dei tempi della giustizia” e “lo spettro dell’impunità”. A Taranto, secondo il deputato di Avs Angelo Bonelli, “si infligge l’ennesima ferita dopo il disastro sanitario”. Duro il commento di Gian Luca Vitale, avvocato di Slai Cobas e Medicina Democratica: “Il trasferimento non solo si rischia di mettere una pietra tombale sul più grande processo per disastro ambientale celebrato in Italia – dice – Ma può creare un pericolosissimo precedente, un’arma in mano agli inquinatori: più ampio e grave è l’inquinamento, più sarà possibile dire che tra le potenziali vittime ci sono dei giudici e, quindi, più facile sarà annullare il processo”.