Alessandro Santoro, ordinario di Scienza delle Finanze all’università di Milano Bicocca, fino alla scorsa primavera ha presieduto la commissione del ministero dell’Economia incaricata di stimare l’evasione quantificando il “nero” fatto ogni anno lavoratori dipendenti, autonomi, imprese, proprietari immobiliari. Parlando con ilfattoquotidiano.it boccia le principali proposte arrivate finora dalla maggioranza in vista della legge di Bilancio e spiega perché la delega fiscale messa in campo dal governo non affronta i problemi strutturali del sistema. Poi propone una riforma complessiva che comprenda anche una forma di tassazione dei grandi patrimoni e consenta di recuperare equità ed efficienza. Qualcuno ci rimetterebbe, spiega, “ma se il sistema attuale non funziona è perché qualcuno paga troppo poche tasse e altri troppe: rimediare senza che nessuno ci perda è impossibile. La politica non ha il coraggio di dirlo”.

Sui contenuti della manovra al momento ci sono solo due punti fermi: il governo vuol prorogare il taglio del cuneo fiscale e l’Irpef a tre aliquote. Considerato che costano 14 miliardi, ne vale la pena?
Visto che la produttività non aumenta e le retribuzioni sono ferme il taglio del cuneo mi pare necessario: in qualche modo si deve cercare di aumentare il netto in busta. Certo, è solo un pannicello che non risolve i problemi. E sarebbe opportuno fare un’analisi distributiva per capire chi ne beneficia veramente. Sull’Irpef a tre aliquote non sono d’accordo: costa molto e porta un beneficio pro capite molto piccolo, simbolico.

Fare marcia indietro dopo averla presentata come un ulteriore passo verso la flat tax per tutti pare complicato…
Infatti l’avrei evitata fin dall’inizio: sbagliato investire tante risorse per un intervento che difficilmente è stato percepito da chi ne ha goduto. Parlare di aliquote è poco utile: il vero tasto dolente è la base imponibile. C’è una enorme disparità di trattamento dei redditi, che vengono tassati in maniera diversa a seconda che derivino da lavoro dipendente o da lavoro autonomo e da lavoro o da capitale.

La Lega vorrebbe anche allargare la flat tax portando il tetto dei ricavi da 85mila a 100mila euro.
Il regime forfetario è una macroscopica violazione del principio di equità orizzontale non solo tra autonomi e lavoratori dipendenti ma anche all’interno dell’universo degli autonomi, perché non tutti hanno i requisiti per godere del regime agevolato. A fronte di questa riduzione dell’equità, non abbiamo evidenza empirica che la flat tax abbia fatto emergere evasione fiscale. Anzi, soprattutto quando la soglia era più bassa abbiamo visto un crollo dei ricavi dichiarati per stare sotto quel tetto. Di conseguenza c’è stata perdita di gettito. Alzare l’asticella cambia poco perché a quei livelli di ricavi i contribuenti sono pochissimi, per cui il costo sarebbe ridotto. Ma il danno ormai è fatto. Il sistema è più iniquo e non è più efficiente.

Si ipotizza anche un innalzamento da 50mila a 60mila euro del limite dello scaglione Irpef oltre il quale scatta l’aliquota del 43%: secondo il governo sarebbe un aiuto al “ceto medio”.
Visto che il 93% dei contribuenti italiani dichiara meno di 55mila euro, la matematica dice che quelli che stanno tra 50 e 60mila non sono ceto medio. Nel merito, un intervento del genere sarebbe solo un favore a un piccolissimo gruppo di contribuenti, senza alcun impatto macroeconomico. E lascerebbe irrisolto il problema strutturale del restringimento della base imponibile dell’Irpef, ormai pagata solo da dipendenti, pensionati e quella parte di autonomi che non ha accesso al forfetario. Non butterei via i soldi così.

L’ipotesi di ridurre le tasse per chi ha figli concedendo maggiori detrazioni la convince?
Differenziare le detrazioni in base al numero dei figli rischia di segmentare ulteriormente la base imponibile, con nuove violazioni dell’equità orizzontale.

È passato poco più di un anno dal varo della delega fiscale. Sono stati approvati 13 decreti attuativi tra cui quelli su sanzioni tributarie, riforma della riscossione e concordato preventivo biennale. Abbiamo un fisco più semplice che stimola gli investimenti, come da auspici del governo?
L’anima della delega è quella tipica dell’analisi giuridica: il fisco viene visto come un insieme di norme. Manca un modello, un disegno complessivo. Il risultato è un insieme di interventi senza visione. Ma soprattutto non si riconosce l’urgenza di intervenire su un aspetto sostanziale, il disegno delle basi imponibili. La delega anziché rivedere i regimi agevolativi già esistenti, che riducono il reddito complessivo a cui si applica l’Irpef, ne crea di nuovi.

La riforma della riscossione risolverà le inefficienze che hanno consentito l’accumulo di 1.200 miliardi di cartelle non pagate?
Il decreto attuativo è una cornice senza quadro dentro: una revisione delle procedure con un abbozzo di tentativo di smaltire il magazzino dei crediti non riscossi, senza una strategia di riforma. Non si affronta il nodo di come si fa riscossione in Italia. Il sistema soffre di una carenza di personale e di poteri: in tutti gli altri Paesi per esempio le agenzie di riscossione scelgono quali debiti andare a riscuotere in base a un’analisi predittiva della probabilità che il singolo contribuente paghi. Non c’è poi un’azione specifica – telefonate, mail, avvisi personalizzati – per prevenire la creazione stessa del debito fiscale. L’Ocse ha pubblicato volumi di best practice a cui ci si sarebbe potuti ispirare: non è stato fatto.

Fino a fine ottobre le partite Iva possono aderire al concordato biennale con il fisco. La misura ridurrà l’evasione, come spera il viceministro Maurizio Leo?
In Italia la quota di contribuenti che autodichiarano il proprio reddito è enorme, senza paragoni negli altri Paesi europei. Quindi all’inizio l’idea che l’Agenzia, in base ai dati in suo possesso, proponesse agli autonomi un reddito da tassare e premiasse chi accettava un aumento mi pareva condivisibile. Ma è stata realizzata male. Il governo ha ceduto alla richiesta di una flat tax sulla differenza tra cifra proposta dall’amministrazione e reddito dichiarato: una nuova gigantesca violazione dell’equità, in questo caso tra gli autonomi. Perché chi fin dall’inizio ottiene un voto Isa pari a 10 deve pagare tutte le imposte su quel reddito, e invece chi ottiene un voto pari a 6 ma concorda di arrivare a 10 potrà pagare molto meno grazie alla flat tax sul reddito addizionale?

L’anno scorso l’Agenzia delle Entrate ha recuperato 24,7 miliardi da attività di controllo e misure straordinarie come le rottamazioni. Per la maggioranza è la prova che la lotta all’evasione è stata rafforzata.
Al netto delle definizioni agevolate i dati sono in linea con quelli degli anni precedenti. Non c’è stata, per fortuna, la discontinuità che alcune parti della maggioranza avevano ventilato. Per il futuro, però, dal piano degli obiettivi dell’Agenzia delle Entrate emerge una riduzione degli accertamenti. Accade anche negli altri Paesi ma a mio avviso è sbagliato. Anche tenendo conto dei costi che hanno per l’amministrazione e per i contribuenti, i controlli già oggi sono sotto il livello ottimale.

L’analisi del rischio fiscale basata sull’uso dei dati dell’anagrafe dei conti correnti è partita dopo anni di stallo. Ma le Entrate non rivelano quanto sia effettivamente utilizzata e con che risultati: temono che avendo più informazioni i contribuenti possano eludere i controlli. Ha senso?
Tutte le amministrazioni fiscali paventano quella possibilità. Ma c’è bisogno di conoscere almeno il tipo di logica sottostante e, visto che parliamo di procedure guidate dagli algoritmi, sapere quando arriva l’intervento umano. Non solo: visto che la stessa delega fiscale prevede un ampliamento di queste analisi, il che comporta indubbiamente una limitazione del diritto alla privacy, la collettività dovrebbe essere informata su come si usano i dati.

Il governo quando l’argomento emerge si limita a prendere le distanze da quello che definisce “Grande fratello fiscale”.
C’è un problema culturale, ma questo tema deve entrare nel dibattito. Nella convenzione tra Entrate e Mef andrebbero specificati obiettivi quantitativi e qualitativi dell’analisi del rischio e nella Relazione sull’evasione o in un altro documento pubblico andrebbero rendicontati i risultati. Occorre trovare un bilanciamento tra l’interesse collettivo alla riduzione dell’evasione e quello individuale alla tutela dei dati personali: lo stesso Regolamento europeo sulla privacy, dopo aver indicato tutti i diritti individuali, dice che se sussiste un interesse generale superiore quei diritti possono essere limitati per legge.

Da dove bisognerebbe partire per rendere il sistema fiscale efficiente e ridurre l’evasione?
Sull’Irpef l’emergenza è la base imponibile: non è più tollerabile che esista una miriade di regimi differenziati che finiscono per produrre un’Irpef à la carte. Gradualmente occorre riassorbire i regimi agevolativi a partire dalla cedolare secca sugli affitti che, come ha mostrato la Relazione evasione 2022, è stata un enorme regalo ai grandi rentier proprietari di tanti immobili, ha fatto emergere solo qualche piccolo evasore e nel complesso è costata carissima allo Stato. Anche il regime forfetario va eliminato: ha creato enormi iniquità senza effetti di emersione documentati. Una volta allargata la base imponibile, grazie all’aumento di gettito si potranno ridurre le aliquote effettive, anche potenziando le detrazioni per lavoro autonomo che oggi sono molto limitate.
Per l’Iva penso a una riforma strutturale che, sempre gradualmente, riaccorpi le aliquote agevolate e usi il maggior gettito per interventi mirati di welfare a beneficio delle famiglie più deboli e per il contrasto alla povertà. Questo perché oggi le aliquote ridotte sui beni di prima necessità finiscono per portare benefici maggiori, in termini assoluti, ai nuclei più benestanti.

I grandi patrimoni andrebbero tassati?
In una prima fase penso a forme di tassazione di quelli molto elevati per rimediare alla dimostrata regressività del sistema fiscale ai livelli più alti e ritocchi all’imposta su donazioni e successioni, perché la franchigia di 1 milione di euro è troppo alta. Poi, nel medio periodo, va rimessa in discussione l’idea che i redditi da capitale debbano stare fuori dall’Irpef: si è deciso così perché era difficile controllare i flussi di capitale in uscita dal Paese, ma oggi esiste un sistema di scambio automatico di informazioni su quei flussi che coinvolge anche i paradisi fiscali. È il momento di iniziare a rivedere le regole e riassorbire via via quei redditi nella base imponibile Irpef.

Contro l’evasione cosa manca?
Non servono grandi interventi normativi. Se l’avvio dell’analisi del rischio sta funzionando, c’è bisogno di una procedura generale compatibile con il regolamento privacy che consenta di farla in forma massiva, su centinaia di migliaia o milioni di posizioni, incrociando tutti i database compresi quelli su accertamenti, consumi tracciati, patrimoni all’estero. Per tradurre questo in pratica occorrono risorse umane e materiali e un modello organizzativo in grado di applicare il nuovo approccio. Servirà poi un intervento legislativo per consentire all’agenzia della riscossione di dare priorità ai debiti che si possono riscuotere e di sapere se sul conto corrente del contribuente ci sono soldi sufficienti, in modo da evitare di dover fare pignoramenti al buio. L’accesso a quelle informazioni era stato a dire il vero previsto nell’ultima manovra, tra polemiche pretestuose, ma manca il decreto attuativo. L’alternativa è l’ennesimo condono anche a favore di chi sarebbe in grado di pagare.

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