La XXII, ricchissima edizione del festival Kilowatt a Sansepolcro (12-20 luglio 2024), sapientemente diretto da Lucia Franchi e Luca Ricci, ha avuto come padrini Sandro Lombardi e Federico Tiezzi. Due icone della nuova scena italiana, che misero a soqquadro fin dagli anni Settanta con il loro debutto all’insegna di un teatro radicalmente visivo e visionario.

La due giorni a loro dedicata è stata piena di eventi interessanti. Particolarmente significativo, per il tema e la qualità degli interventi, mi è sembrato l’incontro dedicato all’attore. Oltre ai due ospiti, partecipavano gli attori Francesca Benedetti e Lino Guanciale e la pedagoga, grande specialista della voce, Francesca Della Monica, con il drammaturgo Fabrizio Sinisi in veste di conduttore.

In effetti il titolo dell’incontro era “L’attore e la sua voce”, ma fortunatamente si è andati molto al di là del tema annunciato, fino a toccare un punto davvero cruciale, e non da oggi: l’importanza dell’abbandono e della passività in un lavoro, come quello della interpretazione-creazione attoriale, che si immagina invece (e in parte giustamente) all’insegna del controllo e della padronanza tecnica.

Agli inizi del Novecento, uno dei padri fondatori del teatro di regia, il tedesco Georg Fuchs, influenzato da Nietzsche, si interessava alla trance, che lui chiamava “ipnosi”, nella convinzione che “ogni esperienza artistica ha come premessa indispensabile la mancanza di ‘intenzioni’, ‘volontà’, ‘calcolo’, cioè di coscienza”. Più o meno negli stessi anni, il russo Stanislavskij matura la convinzione che a creare sia soltanto la natura, cioè l’inconscio. Di conseguenza, per lui, ogni sistema di recitazione dovrebbe consistere sostanzialmente nella elaborazione di tecniche psicosceniche che consentano all’attore di mettere l’inconscio in condizione di creare.

Ecco porsi subito il problema chiave, che spesso assume i caratteri di una vera e propria aporia: come conciliare l’abbandono con il controllo, ovviamente indispensabile per l’attore in scena.

Abbandono” e “controllo” appartengono al lessico del pedagogo e regista polacco Alessandro Fersen, che ha operato per tutta la vita in Italia ed è stato, con il Mnemodramma, uno dei maggiori sperimentatori sui fondamenti subconsci della recitazione. Si tratta dello stesso problema che Jerzy Grotowski, anche lui polacco, ha definito come necessità inderogabile, per l’attore, di tenere insieme ciò che a prima vista appare (quasi) inconciliabile: spontaneità e precisione, organicità e artificialità.

Lungo il Novecento vediamo contrapporsi e incrociarsi due diverse concezioni della recitazione. La prima è quella che vede l’attore come soggetto attivo, agente, e di conseguenza privilegia il controllo rispetto all’abbandono, in favore di un’azione scenica cosciente e volontaria. Espressioni celebri di questa concezione sono: l’attore biomeccanico di Mejerchol’d, il mimo corporeo di Decroux, l’”atleta del cuore” di Artaud; giù giù fino al Performer, maestro d’azione, di Grotowski, e all’attore eurasiano di Eugenio Barba.

La seconda concezione, all’opposto, vede l’attore come un soggetto fondamentalmente passivo, non agente dunque ma piuttosto agìto, e di conseguenza privilegia l’abbandono sul controllo. Invece che come un maestro dell’azione qui l’attore è concepito come un ministro di forze, qualcuno che in luogo di possedersi pienamente deve al contrario spossessarsi, cioè farsi possedere-invadere da forze, pulsioni, energie profonde, cui cercherà in qualche modo di dare forma, finalmente affrancato dai condizionamenti della coscienza e della volontà.

In questo caso la filiera può iniziare addirittura con la marionetta di Kleist, e proseguire poi, fra l’altro, con le isteriche di Charcot, la danzatrice sonnambolica Madeleine G. esaltata da Fuchs, la Falconetti estatica ne La passione di Giovanna D’Arco di Dreyer (1928), giù giù fino all’attore di Carmelo Bene, che arriva all’atto, puntigliosamente distinto dall’azione, proprio attraverso il depensamento e l’oblio di sé, e all’attore-soma di Romeo Castellucci.

Come emerso nel dibattito a Kilowatt, oggi non si tratta più di scegliere fra una linea o l’altra ma di prendere atto che abbandono e controllo, passività e decisione, rappresentano i due poli irrinunciabili del lavoro attoriale, con diversa incidenza ovviamente nelle varie fasi nel processo creativo e in scena.

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