La Sicilia sta diventando sinonimo a livello internazionale degli impatti devastanti causati dalla crisi climatica. La notizia dell’inaudita siccità, che ha devastato l’agricoltura, l’economia locale e minacciato per tutta l’estate il turismo, si è diffusa a macchia d’olio sui giornali di tutto il mondo. Un pubblico ormai globale sta scoprendo che il 70% dell’isola rischia la desertificazione, una condizione associata al rapido aumento delle temperature nel Mediterraneo conseguente alla crisi climatica.

Una realtà preoccupante e incontrovertibile, che nasconde un’altra storia. Una storia che da un lato appare più deprimente, dall’altro più promettente.

Ho trascorso anni lavorando per la transizione dell’Italia e di altri paesi verso fonti di energia rinnovabili che non devastino i nostri sistemi di sopravvivenza, come invece accade con i combustibili fossili. La crisi climatica è il mio incubo costante e sono la prima a sostenere che l’Italia, una delle principali vittime sia per siccità che per inondazioni, dovrebbe agire in modo coerente e investire in una decarbonizzazione rapida e inclusiva, e nella rigenerazione di ogni singolo settore della nostra economia.

La siccità però è anche dovuta in larga parte a fattori locali. Nella mia zona (intorno Noto, nel sud-est) scompare sempre più vegetazione. La caratteristica macchia mediterranea, parte cruciale del ciclo dell’acqua, sta sparendo. Quando piove l’acqua scorre lungo l’asfalto e il cemento, lungo i pendii erosi e nel mare, senza riuscire a infiltrarsi nel terreno e nella falda freatica. Nella mia valle ho visto la pioggia diminuire, con le nuvole che fiorivano nel cielo, senza abbastanza alberi che esalassero la propria umidità per portare la pioggia a materializzarsi e a sua volta precipitare a terra. L’acqua di cui disponiamo viene sprecata – parliamo di oltre il 50%, come in gran parte dell’Italia – in sistemi di tubature paragonabili a un colabrodo.

Non si tratta solamente di cambiamento climatico. Questa situazione è il risultato di un assalto continuo contro i nostri boschi e il nostro patrimonio arboreo da parte di criminali che incendiano la Sicilia, pezzo per pezzo, come se stessero componendo un mosaico di distruzione. Le poche iniziative governative sono risultate inefficaci, gli incendi continuano a proliferare e le autorità giudiziarie, che hanno un immenso potere con il quale potrebbero investigare e reprimere il fenomeno, alzano le spalle di fronte alla nostra imminente rovina. Quanti animali sono stati bruciati o hanno perso il proprio habitat? E quali sono i motivi che guidano questo ecocidio? Dove sono la volontà politica e gli investimenti per scoprirlo e combattere questo fenomeno? Presto questo mosaico sarà completo e la terra che incarnava il concetto di fertilità come patria della dea Cerere, e le pianure ricche di grano da cui sua figlia Persefone fu rapita, diventerà sinonimo di deserto e autodistruzione.

Durante il tempo in cui ho vissuto in Sicilia, la terra da cui emigrò mio padre, ho assistito al rapido degrado ecologico dell’isola. Le aree che erano boschive ora sono sterili. Gli alberi in cima alle colline sono ora macerie erose. L’acqua fuoriesce copiosamente agli angoli delle strade da tubature rotte, mentre le strutture turistiche e parte della cittadinanza hanno ritenuto opportuno costruire piscine private a pochi chilometri, se non metri, da alcune delle spiagge più belle del Mediterraneo. Le ferite avvelenate causate dalle aziende di combustibili fossili e da altre grandi infrastrutture inquinanti hanno lasciato le comunità locali con alti tassi di mortalità per cancro, senza contare le malattie e le difficoltà che tutt’oggi affliggono i nostri bambini. Proprio i bambini in alcune località, a seconda della direzione in cui soffia il vento, sono costretti in casa, per non respirare terribili esalazioni. Siamo inondati di spazzatura e, piuttosto che ripensare al nostro rapporto con ciò che produciamo e orientarci verso la direzione “rifiuti zero”, pensiamo a costruire inceneritori che consumano acqua e danneggiano il clima.

Da volontaria ho investito ore e ore nel tentativo di fermare il flagello degli incendi. Provo frustrazione quando la cittadinanza alza le spalle, limitandosi a prendere atto della siccità commentando vagamente che “la crisi climatica è terribile”. Le persone che combattono ogni giorno per cambiare la situazione della Sicilia sanno bene che il vero flagello dell’isola è la scarsa qualità della governance, della protezione dei beni comuni e dell’autorità pubblica. Esistono punti di riferimento positivi e luminosi – sindaci virtuosi e funzionari pubblici eccezionali – ma sono appunto l’eccezione. La leadership eletta in Sicilia sembra quasi orgogliosa di ignorare le richieste della cittadinanza, di deridere il numero di firme sulle petizioni che riceve, di snobbare le PEC di denuncia e in generale di sminuire la società civile, risultando evidentemente più interessata a tutelare altri interessi rispetto a quelli della collettività.

Lo stato scioccante della politica siciliana chiama in causa inevitabilmente l’urgenza di un coinvolgimento delle istituzioni europee, non perché la Sicilia manchi di talenti – esporta anzi menti brillanti in gran parte del mondo – ma perché coloro che sono contraddistinti da reale spirito pubblico non hanno accesso al potere e si ritrovano costantemente ostacolati nell’attuazione di buone pratiche. I partiti politici non hanno un programma ecologista reale e lungimirante, oppure mancano delle competenze per attuarlo – alcuni risultato inspiegabilmente e follemente concentrati sulla lotta contro le energie rinnovabili piuttosto che liberarci dai combustibili fossili che stanno uccidendo il nostro territorio.

Ho scelto di considerare il fatto che la devastazione ecologica della Sicilia abbia anche radici territoriali come una fonte di speranza, poiché significherebbe che potremmo essere in grado di annullare la devastazione attraverso un’azione locale. Penso ad esempio al recente decalogo contro la siccità e per la tutela del patrimonio idrico: una campagna dal territorio per il territorio, lanciata da oltre quindici organizzazioni della società civile siciliana per sensibilizzare popolazione e istituzioni sull’urgenza di contrastare questo fenomeno.

Il nostro destino dipende in parte dallo sforzo globale – cui dobbiamo partecipare – per fermare il surriscaldamento globale, ma dipende anche dall’azione locale. Un coraggioso piano contro l’ecocidio e per la rigenerazione della nostra terra attraverso l’agroecologia e la transizione ecologica, valutando ogni futura iniziativa in base agli impatti sul ciclo dell’acqua e sulle falde acquifere, educando popolazione e turisti su cosa significhi veramente sostenibilità. Tutto questo potrebbe metterci sulla giusta strada e consentire alla Sicilia di risorgere, quasi letteralmente, come una fenice, dalle proprie ceneri.

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