Mosca, appena un giorno fa, ha fatto intendere il suo senso per l’informazione, spiccando mandati di arresto per Paton Walch, corrispondente della Cnn, i giornalisti della Rai, Stefania Battistini e Simone Traini; Nicholas Simon Connolly, della testata Deutsche Welle; e le giornaliste ucraine Nataliia Nahorna, Diana Butsko e Olesia Borovyk. Il gruppo è accusato di essere entrato in Russia senza permesso a seguito del raid ucraino nella regione di Kursk.

Che le autorità del Cremlino facciano sul serio quando si tratta della presenza di cronisti “non graditi” lo ha dimostrato la vicenda di Evan Gershkovich, il reporter del Wall Street Journal recentemente liberato dopo quasi 16 mesi di detenzione in Russia: era stato accusato di spionaggio e rischiava di scontare molti anni di carcere. Il giornalista è stato ricevuto, nei giorni scorsi a Washington, dal senatore Ben Cardin presidente della commissione per le relazioni estere del Senato: “Mentre il nostro Paese lo accoglie a casa, la nostra lotta comune continua per ogni americano ingiustamente detenuto in Russia e nel mondo”, ha detto Cardin. La dichiarazione del senatore mette il dito nella piaga: se sei un inviato occidentale e hai una testata importante, hai una possibilità di scampare alla galera imposta dal Cremlino verso quei cronisti accusati di “disinformazione”. Se sei un reporter russo, non sei così sicuro di cavartela.

Secondo Reporter Senza Frontiere (RSF), fino al 2023 erano 22 i giornalisti incarcerati per il loro lavoro. Per le Nazioni Unite il numero è lievitato a 30 con accuse penali di varia natura, tra cui terrorismo, estremismo, diffusione consapevole di informazioni false sulle forze armate, spionaggio, tradimento, estorsione, violazione dei diritti delle persone, violazione delle disposizioni di legge sugli agenti stranieri, incitamento a disordini di massa e possesso illegale di esplosivi o droga. Dodici di loro stanno scontando pene che variano da 5 anni e mezzo a 22 anni di detenzione. Il nome più in vista è quello di Vladimir Kara-Murza , editorialista del Washington Post, vincitore di un Pulitzer.

Meno noti sono gli altri reporter imprigionati, seppur le loro vicende non siano meno drammatiche. Maria Ponomarenko è stata condannata a sei anni di carcere per aver violato le leggi russe sulla censura in tempo di guerra; lavorava per l’agenzia di stampa indipendente RusNews ed aveva scritto un articolo sul bombardamento del teatro di Mariupol. Mikhail Afanasyev era caporedattore di Novy Fokus: rischia fino ad otto anni di carcere per aver firmato un articolo nel quale raccontava la riluttanza dei soldati russi ad essere spediti in Ucraina a combattere. Ben 22 anni di carcere per Ivan Safronov, la cui vicenda è stata raccontata dal Moscow Times: “Cronista della difesa presso diversi importanti quotidiani russi e in seguito impiegato presso l’agenzia spaziale statale Roscosmos; è stato dichiarato colpevole di tradimento”. Safronov, secondo l’accusa, avrebbe raccolto informazioni segrete sull’esercito russo per passarle a spie della Repubblica Ceca. “I sostenitori di Safronov ritengono che il processo contro di lui sia una vendetta per il suo lavoro giornalistico, in particolare per i suoi reportage sul commercio di armi”.

Ci sono quelli che alla prigione certa hanno preferito la fuga. Marina Ovsyannikova in diretta, sulla televisione di stato, protestò contro l’intervento militare della Russia in Ucraina, mostrando un cartello. Ovsyannikova è fuggita con la figlia e si trova in Francia: è stata condannata ad otto anni in contumacia. Su tutte queste vicende, professionali e umani, aleggia il ricordo di Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa nel 2006; aveva raccontato il dramma della guerra in Cecenia. Il suo assassino, Sergei Khadzhikurbanov non dovrà scontare la condanna di 20 anni di carcere; si è arruolato per combattere in Ucraina e al suo rientro è stato graziato. In Russia chi imbraccia un fucile, almeno per il momento, ha più considerazione da parte delle autorità di chi batte su una tastiera per raccontare “l’operazione speciale”.

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