Isolati dalla comunità internazionale anche a causa delle folli politiche domestiche messe in campo soprattutto nei confronti della popolazione femminile dell’Afghanistan, i Talebani stanno però portando avanti con successo una strategia di accreditamento regionale. L’ultimo episodio in ordine di tempo di quella che sembra una tendenza in fase di costante consolidamento, è la presunta ripartenza dei lavori relativamente al gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI).

Presunta perché di quest’opera, che dovrebbe far transitare il gas naturale turkmeno attraverso il territorio afgano fino a quello pachistano e indiano, si parla da almeno tre decenni. Con finora pochissimi passi avanti, anche a causa di tutta una serie di ostacoli finanziari, politici, logistici e di sicurezza. Nei giorni scorsi a Herat si è però tenuta con grande clamore la cerimonia di inizio dei lavori della sezione afgana del gasdotto – quella turkmena stando alle dichiarazioni ufficiali dovrebbe già essere stata completata.

Anche solo l’avvio della realizzazione del TAPI darebbe respiro all’economia afgana grazie alle ricadute occupazionali, senza parlare poi delle entrate che sarebbero garantite dal passaggio del gas turkmeno, stimate in circa 500 milioni di dollari all’anno. Va detto che il TAPI è da sempre stato circondato dallo scetticismo, non da ultimo a causa della difficoltà che emergerebbe di garantire la sicurezza dell’opera in un contesto interessato da continua instabilità come quello afgano.

Se si guarda però a quanto avvenuto a Herat allargando lo sguardo al suo significato politico, l’episodio è molto rilevante, soprattutto perché i Talebani negli ultimi mesi hanno implementato un grande sforzo diplomatico per accreditarsi come interlocutori credibili soprattutto verso i paesi della regione. Con un certo successo. Pochi giorni fa la repubblica centro asiatica del Kirghizistan ha rimosso il movimento fondamentalista dalla lista delle organizzazioni considerate terroristiche, una mossa che le autorità kirghise hanno cercato di tenere sottotraccia. Non così dal lato afgano, con il ministero degli Esteri di Kabul che si è affrettato a sottolineare la rilevanza della decisione di Bishkek sulla strada della, almeno nelle intenzioni dei Talebani, piena accettazione dell’Emirato Islamico da parte della comunità internazionale.

L’iniziativa del Kirghizistan segue a distanza di pochi mesi quella identica intrapresa dal Kazakistan, ancora più significativa perché quest’ultima è la repubblica centro asiatica di gran lunga più importante dal punto di vista economico e che gode del maggiore peso politico a livello globale. Astana aveva inserito i Talebani nella lista dei movimenti terroristici nel 2005. L’altro gigante dell’Asia Centrale, in questo caso dal punto di vista demografico, l’Uzbekistan, non ha per ora agito in tal senso.

Ma Tashkent a metà agosto ha mostrato di ritenere i Talebani un interlocutore da tenere in considerazione, inviando a Kabul il primo ministro uzbeco. Quella compiuta da Abdulla Aripov è stata la visita ufficiale di più alto grado in Afghanistan dall’agosto 2021, quando Kabul è stata riconquistata dal movimento guidato dal 1994 fino alla sua morte nel 2013 dal Mullah Omar.

C’è di più, perché alcuni paesi asiatici stanno allo stesso tempo accettando i rappresentanti diplomatici nominati dai Talebani. La Cina ha compiuto per prima questo passo, a gennaio di quest’anno, seguita poche settimane fa proprio dal Kazakistan e dagli Emirati Arabi Uniti. Anche la repubblica centro asiatica decisamente più ostile nei confronti dei signori di Kabul, il Tagikistan, sta operando piccole aperture: il regime tagico ha infatti inviato in Afghanistan il capo del Comitato di Stato per la sicurezza nazionale per farlo incontrare con ufficiali dell’intelligence afgana. Un episodio che, se fosse avvenuto tra due qualsiasi paesi confinanti, si sarebbe potuto considerare di routine, ma che riguardando le controparti tagica e afgana assume un significato molto rilevante.

Il filo rosso che si nota osservando la dinamica in atto è la crescente consapevolezza del fatto che i Talebani sono destinati a rimanere al potere a lungo e che quindi aprire un canale di dialogo è necessario. Ogni paese porta poi avanti la propria agenda rispetto all’Afghanistan: gli attori confinanti come l’Iran, il Pakistan o l’Uzbekistan, allo stesso tempo temono le potenziali ricadute interne dell’instabilità afgana e guardano con interesse alle potenzialità logistiche e commerciali.

Altri, come la Cina, mirano ad avere un peso politico e a sfruttare le risorse minerarie della repubblica asiatica. Quel che è certo è che i Talebani non perdono occasione per fare leva a livello politico e di propaganda sui successi diplomatici che ottengono con sempre maggiore frequenza. Una normalizzazione che guardando alla gestione della sfera sociale interna all’Afghanistan e alle ricadute per la popolazione locale non può che incutere timore.

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