Una signora dell’alta società che passa dall’abbigliamento da boutique a quello delle bancarelle del mercato, ma che nel portafoglio conserva una carta di credito platino pronta all’uso in qualsiasi momento per continuare a togliersi i propri sfizi. La Juventus attuale assomiglia moltissimo a questa immagine. Se il business plan è quello di tagliare gli elevati costi che portano a un bilancio in perdita strutturale – come i bianconeri in Europa solo Paris Saint Germain e Roma – in realtà si continua a intervenire sul mercato in maniera imponente, cercando il massimo margine di manovra e compensando contemporaneamente il deficit con nuove liquidità. L’operazione Koopmeiners, importante sotto il profilo tecnico, rappresenta proprio la carta di credito citata prima, visto che ha portato la spesa sul mercato dei bianconeri a quasi 165 milioni di euro, il maggior esborso dal 2019/2020, l’anno dell’arrivo di Matthijs de Ligt.

L’ex Atalanta, pagato quasi 55 milioni di euro, ha così fatto pendere una bilancia di mercato, fino a quel momento tutto sommato in equilibrio, verso un saldo negativo di oltre 60 milioni.
Se il connazionale De Ligt aveva rappresentato l’inizio della fine delle fallimentari ambizioni da grandeur di Andrea Agnelli, Koopmeiners racconta di una Juventus che non intende arrendersi a “finire come il Milan” (virgolettato d’obbligo, trattandosi di una mera constatazione e non di un giudizio sull’operato dei rossoneri), mettendo la sostenibilità del bilancio al primo posto. O, quanto meno, facendolo con molta calma. Del resto, la Serie A è praticamente senza regole a livello di finanze, e se ci sono sembrano valere esclusivamente per i club di piccola-media grandezza. Niente salary cap come accade nella Liga spagnola, ma nemmeno un tetto all’indebitamento come quello inserito dalla Premier League. Qui il modello rimane quello, tradizionale, delle ricapitalizzazioni. L’unica vera barriera è rappresentata dalle regole Uefa del FFP che, soprattutto attraverso la squad cost rule (a regime le spese per salari dei tesserati, trasferimenti e commissioni non possono superare il 70% del fatturato) si propone di rendere più efficace un sistema che fino a ora ha funzionato solo con i pesci piccoli.

Quest’anno la Juventus sfonderà il muro dei 900 milioni di euro di perdite totalizzate negli ultimi sette anni. Sono gli effetti della citata trasformazione del bilancio societario in un bilancio in perdita strutturale iniziata con l’operazione Ronaldo. Se nella stagione 2017/18 il passivo ammontava a 19 milioni di euro, due anni dopo era balzato a 90 milioni, quindi a 210, fino a toccare quota 239 nel 2021/22. Ovviamente non va dimenticata la pandemia, che nel caso della Juventus ha però peggiorato una situazione già fuori controllo. Due anni fa le perdite registrate sono state di 144 milioni, mentre il primo semestre dell’ultimo esercizio ammontavano a 95 milioni. Con altri sei mesi ancora da mettere a bilancio, è scontato ipotizzare perdite di molto superiori a quelle dell’anno precedente. Pesa la stagione senza Europa, che però non avrebbe cambiato molto, visto che la Juventus avrebbe disputato la Conference League se non avesse accettato la sanzione della Uefa di saltare un anno di coppe. Avrebbe potuto andare peggio, considerate le infrazioni delle quali è stata ritenuta colpevole la società.

Perdite strutturali significano un costante rapporto negativo tra costi e ricavi, che prescinde il saldo tra acquisti e cessioni. Quello può essere utile a tamponare la situazione, senza però risolverla. L’intenzione dichiarata della dirigenza della Juventus è quella di intervenire in maniera più efficace sui costi, non avvalendosi troppo dell’apporto del player trading, che rimane necessario quando le entrate da stadio, diritti tv e commerciali non riescono a coprire le spese. Finora, però, le plusvalenze sono state più importanti dell’abbattimento dei costi salariali. Si prenda come esempio l’operazione Douglas Luiz, costato 51.5 milioni di euro. In realtà la Juventus non ha pagato quella cifra all’Aston Villa, compensandola parzialmente mandando a Birmingham Samuel Iling-Junior e Enzo Barrenechea, valutati rispettivamente 14 e 8 milioni di euro. Più che i 22 milioni di risparmio, ha fatto felice il bilancio la plusvalenza realizzata per la stessa cifra, visto che i costi di entrambi i giocatori, prodotti del vivaio, erano già stati ammortizzati. Douglas Luiz invece quest’anno costa alla Juve 19.8 milioni (10.3 di ammortamento più 9.5 di stipendio lordo). Togliendo quindi l’ingaggio, l’impatto del brasiliano in questa stagione è di circa dieci milioni. Indubbiamente un’ottima operazione, anche se, come detto, le plusvalenze sono incassi “una tantum”.

Il payroll della Juventus resta il più alto di tutta la Serie A, nonostante tra cessioni e risoluzioni contrattuali i bianconeri si siano alleggeriti di costi per 95.3 milioni, mentre i nuovi acquisti aggiungevano un esborso di circa 70 milioni. Un saldo positivo importante. Ma poi la Juventus ha voluto comunque portare a Torino Koopmeiners, aggiungendo altri 16.8 milioni e erodendo sensibilmente il citato saldo. L’olandese a bilancio ha preso il posto di Federico Chiesa, che costava di più (19.7) e che, per ragioni di tempistiche, è stato venduto al Liverpool al minimo sindacale, ossia 12 milioni, il prezzo del suo ultimo anno di ammortamento nel bilancio bianconero. Un’operazione last minute che ha impedito alla Juventus di capitalizzare maggiormente il valore del giocatore. Ma i rischi del player trading sono proprio questi. Per centrare i target del piano di risanamento predisposto dalla dirigenza bianconera (risultato economico positivo, generazione di cassa e riduzione del debito entro il 2026-27) occorre fare molto di più, incrociando ovviamente le dita sulla partecipazione costante alla Champions League – resa più facile dall’incremento da 4 a 5 squadre partecipanti per la A (del resto i nuovi format sono pensati proprio per favorire elite e abbienti di vario genere). In caso contrario, continuerà a pensarci la carta di credito di mamma Exor.

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