di Jakub Stanislaw Golebiewski

Rimango impietrito dinanzi la notizia del ritrovamento di madre e figlia abbracciate nel fiume Piave, un’altra tragedia che colpisce al cuore. Una madre che si toglie la vita insieme alla sua bambina di tre anni è un’immagine che, per quanto straziante, ormai non mi sorprende più. E questo è forse ciò che mi fa più paura: l’idea che tragedie simili siano diventate quasi normali, l’indifferenza che ci avvolge finché non esplode l’ennesimo dramma. In un mondo che continuamente si vanta di progresso e sviluppo, continuano a verificarsi tragedie che mostrano quanto poco ci siamo realmente evoluti nel prendersi cura del benessere psicologico delle persone.

La lettera d’addio lasciata dalla madre, già trapelata nelle prime ore, ci raccontava un dolore personale. Ma ora, sapere che madre e figlia sono state ritrovate abbracciate mentre affondavano nelle acque del Piave, aggiunge una drammaticità ancora più cupa. Ci viene naturale chiederci: di fronte a un gesto così disperato, chi può essere il vero colpevole? La società che guarda e ignora, incapace di dare supporto concreto a chi soffre? Oppure siamo noi, spettatori distanti, che liquidiamo ogni tragedia con un commento fugace, un like su un post o una frase fatta sul “bisogno di aiuto”?

Di fronte a una mamma che abbraccia la propria figlia mentre sceglie di lasciarsi andare, appare chiaro che questa non è solo una questione di “disperazione”. È l’ennesima dimostrazione che la rete sociale, tanto celebrata nei discorsi ufficiali, è un miraggio. Parlare di prevenzione e servizi psicologici è facile, ma i fatti dimostrano che, in Italia, c’è ancora una forte cultura del silenzio intorno ai disturbi mentali. Si dice di “chiedere aiuto”, ma poi le strutture sono sovraccariche, i tempi di attesa eterni, e il sostegno è spesso inaccessibile.

E ora, che cosa resta? Il solito circo mediatico. Questa tragedia verrà scandagliata in ogni dettaglio, con i giornali che si concentreranno sulle immagini struggenti, sulle parole della lettera, e sui soliti appelli al “mai più”. Ma tra una settimana, forse anche prima, tutto sarà dimenticato. Così come ci siamo già dimenticati di una mamma che a luglio di quest’anno si è lanciata dal tetto di un condominio di cinque piani, con in braccio il figlio di sei anni oppure dell’attrice Gioia Zanotti di 47 anni, che sempre a luglio si è tolta la vita. Era sposata e madre di quattro figli e prima del gesto estremo ha mandato un sms premonitore ad un amico di famiglia: “Abbi cura tu dei miei figli”. Ne sono certo, ci sarà un altro caso, un’altra notizia sensazionale. Perché è così che funziona: la sofferenza umana diventa materiale di consumo, un dramma che serve a vendere copie, raccogliere clic e fare audience.

La provocazione, però, è una sola: dov’è la società quando il dolore si accumula? Dov’è lo Stato che dovrebbe proteggere i più vulnerabili? Dove siamo noi quando qualcuno intorno a noi precipita nel buio? Forse la risposta è amara, ma sincera: siamo tutti troppo occupati a vivere le nostre vite, a preoccuparci del nostro benessere, per accorgerci che, accanto a noi, qualcuno sta affondando. In fondo, il dolore degli altri è facile da ignorare finché non ci tocca da vicino. Allora sì, ci indigniamo, piangiamo, lanciamo campagne sociali e hashtag, per poi dimenticare tutto alla prossima ondata di notizie. E così ci condanniamo a vivere in un loop infinito di tragedie annunciate, dove le lacrime scorrono insieme alle acque del Piave, portando via con sé non solo due vite, ma anche un po’ della nostra umanità.

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Se hai bisogno di aiuto o conosci qualcuno che potrebbe averne bisogno, ricordati che esiste Telefono amico Italia (0223272327), un servizio di ascolto attivo ogni giorno dalle 10 alle 24 da contattare in caso di solitudine, angoscia, tristezza, sconforto e rabbia. Per ricevere aiuto si può chiamare anche il 112, numero unico di emergenza. O contattare i volontari della onlus Samaritans allo 0677208977 (operativi tutti i giorni dalle ore 13 alle 22).

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