Cultura

Dal Muro di Berlino a Caracas e Dacca: che valore hanno i simboli del potere (e perché è sempre più ‘facile’ distruggerli)

È di un mese fa la notizia della rielezione di Nicolas Maduro in Venezuela. Il terzo mandato del presidente non è stato certo accolto con favore e a poche ore dall’annuncio ufficiale del Consiglio nazionale elettorale, Caracas si è accesa tra proteste e scontri con la polizia. Lo scontento non si è fermato alla capitale e a Coro – la principale città dello stato di Falcon – i rimostranti hanno abbattuto la statua di Hugo Chàvez, ex presidente del Venezuela e padre politico di Maduro. A pochi giorni di distanza, il 6 agosto scorso, quasi dall’altra parte del Pianeta, a Dacca, dopo giorni di distruzioni e proteste incessanti, è caduta la statua di Sheikh Mujibur Rahman, leader fondatore del Bangladesh e padre di Sheikh Hasina, dimessasi da primo ministro del Paese il giorno prima.

La distanza fisica e culturale tra i due Paesi è grande, come diversa è la loro storia politica, eppure, all’apice di un’analoga opposizione popolare all’ordine costituito, le manifestazioni di dissenso vanno a coincidere: cadono, per mano della rivolta, i simboli di un’autorità che, evidentemente, non rappresenta più lo spirito della comunità che dovrebbe guidare. A pensarci bene, il Secolo nel quale viviamo è iniziato in modo molto simile: con l’attentato al World Trade Center nel 2001 e la distruzione di uno dei principali simboli della potenza occidentale nel mondo, seguito, due anni dopo, dalla destituzione di Saddam Hussein e dal vilipendio della sua statua, trascinata a sfregio per le strade di Bagdad.

Per quanto queste immagini siano evocative, non sono che punti nel lungo cammino della storia che, nel suo tragitto, ha più volte affrontato il proprio presente, o passato più recente, con le armi della contestazione e della condanna. È successo tutte le volte in cui gli uomini non si sono più riconosciuti nel potere che pretendeva di dirigerli, tutte le volte in cui l’autorità non è più riuscita a farsi immagine generale delle tante particolarità che la costituivano e la legittimavano. Distruggere i simboli significa delegittimare una forza non più capace di stare in piedi, significa destituire uno stato di cose e, con esso, un’identità i cui bordi si fanno sempre più sfocati, tanto da diventare irriconoscibili.

“I simboli sono mezzi tramite i quali si veicola il potere: non esiste potere politico che non si fondi su dei simboli”, dice Francesco Valagussa, professore ordinario di Estetica all’Università Vita-Salute San Raffaele. “Non sono tutti uguali, certo, e non tutti hanno la stessa importanza. Pensi al dollaro, emblema del potere americano, al centro di qualsiasi scambio. La statua di Chavez, come tutti i monumenti, ha una caratura ben diversa, ma anch’essa “circola” per così dire tra gli sguardi dei passanti, giorno dopo giorno, magari anche inconsciamente. Musil diceva che i monumenti sono fatti per non essere più visti il giorno dopo essere stati costruiti. In realtà, però, anche se inavvertitamente, i monumenti, come ogni altro simbolo, sono il luogo di un perenne scambio, sono un punto attorno a cui si annodano silenziosamente prospettive diverse. Spesso l’accordo è tacito e rimane silente. Le contestazioni cui abbiamo assistito in Venezuela, ma anche in Bangladesh, testimoniano come quei luoghi di scambio siano ormai percepiti come inadeguati: c’è un intoppo nella loro circolazione, segno che in quelle comunità qualcosa sta cambiando, anzi è già cambiato”.

Già, perché è impossibile capire quando un sistema abbia perso la propria rappresentatività, quando lo sconvolgimento diventa visibile, è già accaduto. “È come chiedersi se un mese prima della presa della Bastiglia fosse possibile fare qualcosa – dice Valagussa- è una domanda del tutto insensata”. “Mi viene in mente il film ‘Good bye, Lenin’ – continua il professore con i giovani protagonisti che fanno di tutto per non far scoprire alla madre che la DDR è caduta e lei che vede la statua di Lenin portata via da un elicottero dall’omonima piazza berlinese. Ormai quel mondo è finito“.

L’abbattimento dei simboli non è mai l’inizio della rivoluzione, è sempre la fine, l’ultimo atto di un lungo processo di cambiamento del quale certamente rappresenta il momento più evidente, ma non quello decisivo. “Le persone fanno continuamente un milione di cose – spiega lo studioso – scambiano merci, acquisiscono conoscenze o ne perdono, si spostano, ma ci sono dei momenti, in questo continuo lavorio della vita, in cui si percepisce un’inadeguatezza nel sistema di simboli in cui ci si è riconosciuti fino al giorno prima, o fino a tre millenni prima. È la differenza tra le forme e la vita di Simmel: ci sono le forme che la vita si dà e poi c’è il movimento vitale che supera tutte le forme”.

Ci si potrebbe chiedere se distruggere simboli diventi a sua volta un simbolo, di cambiamento o di rivoluzione. La domanda è lecita, ma il mondo, ancora una volta, è cambiato. È cambiata la sua struttura, non più fatta di imperi millenari, di spazi sconfinati e di orizzonti che, all’uomo, sembrano irraggiungibili. “Togliere la corona a Romolo Augustolo non è uguale a distruggere la statua di Chavez. Nel primo caso, è finito qualcosa che dura da tempo immemorabile, è finita Roma”, spiega Valagussa. Il mondo si deve riorganizzare sulla base di quella perdita, di quella mancanza: “Anche la distruzione della statua di Chavez testimonia uno stravolgimento della realtà: verosimilmente non paragonabile alla fine dell’Impero romano“.

“Oggi è più semplice distruggere i simboli: sono meno pregnanti, meno capaci di catalizzare la vita. Perciò risulta molto più facile far fronte alla perdita”, continua lo studioso. “Pensi al muro di Berlino: da lì passava la divisione tra due mondi. La sua caduta è stata una catastrofe immane: mezzo mondo che collassa. Eppure, il mondo stesso è stato capace di riassorbire quella tragedia“.

Anche l‘elemento identitario si fa più debole, viene schiacciato da nuove idee che, spesso, non resistono nemmeno a se stesse. È emblematico quello che sta succedendo a monumenti storici ed opere d’arte che non rappresentano – o, almeno, non necessariamente – un ideale politico definito, ma che sono piuttosto immagine di un passato per così dire “scomodo”, che non rispecchia i nuovi ideali progressisti e inclusivi frutto della mobilitazione degli ultimi anni in favore della lotta al razzismo, all’omofobia e alla differenza di genere. Vilipendio e distruzioni, in questo caso, sono una risposta alle numerose istanze della cultura woke o dei movimenti di emancipazione e condanna di uno schema identitario inadeguato, che esclude e allontana la diversità. Ma siamo certi che il problema sia racchiuso negli emblemi di un sistema superato? E siamo sicuri che disfarsene risponda davvero ad una (importante) voglia di inclusività ancora mai soddisfatta?

“La cultura è fatta di simboli e il simbolo, per definizione, non può includere tutto, deve tagliare qualcosa per dare rilievo a qualcos’altro”, spiega Francesco Valagussa. “Anche in questo caso vale quello che dicevo prima: la polemica non è di per sé negativa. Sempre Musil faceva l’esempio di ciò che capita quando si appende un quadro in casa: il giorno dopo è come se fosse sparito nelle pareti. Ancora una volta, la contestazione riporta alla luce qualcosa che si era messo da parte, gli conferisce una nuova vita”. Altra cosa, certo, è la demolizione: “Se elimino tutto, non do rilevanza a niente e nessuno e, di conseguenza, non escludo niente o nessuno, ma siamo disposti a pagare un prezzo così alto?”.

Per come il concetto di critica storica viene rivisto e rifondato a metà dell’800, infatti, alla base dell’edificazione di questo tipo di opere sta un ideale educativo e partecipativo. Certo, non viene escluso l’elemento identitario e politico, ma la ricerca ha la possibilità, grazie allo scorrere del tempo e al susseguirsi delle epoche storiche, di reinterpretare questa veste contingente. “La woke culture prende il suo nome da un ideale di continua veglia, dalla voglia di illuminare tutto, ma forse ci stiamo scordando il valore del sonno. Nell’oscurità del sogno, l’uomo rielabora, rimette in ordine il pensiero, non si può pensare di illuminare tutto, neanche l’Illuminismo lo ha mai preteso”.

Non solo, la debolezza della nuova identità che il mondo sta cercando di assumere non permette ai nuovi ideali di instaurarsi in modo davvero significativo: “Ognuno ha i propri 15 minuti alla Andy Warhol e magari sono 15 minuti di notorietà mondiale, ma poi?”. “Molte delle lotte all’emancipazione che lei ha citato sono fondamentali, importantissime, ma non si vede ancora quale “forma complessiva” intendano dare al mondo”, spiega il professore.

“Un ulteriore rischio di questo atteggiamento – continua – è quello di cadere nell’ingenua illusione che questo tipo di cultura possa direttamente escludere l’elemento identitario. “Ho letto che a Rotterdam è stata eretta una statua che raffigura una giovane ragazza dai tratti non caucasici, che porta una t-shirt e delle scarpe da tennis: l’antieroina per eccellenza. Ma questa rappresentazione non è neutra, anche solo le scarpe da ginnastica sono il frutto della cultura occidentale. Non posso astrarmi completamente da me stesso e dal contesto in cui vivo, come diceva Nietzsche: non posso staccarmi la testa”.

La contestazione, fondamentale, rivitalizzante, non è neutra: “Nel caso della statua di Chavez c’è la chiara rivendicazione di un’identità politica opposta a quella che si intende distruggere. Non c’è una pretesa di assolutezza: al contrario, ci si oppone al passato in vista di qualcosa di nuovo, di differente.Nel caso dei monumenti o delle opere storiche criticate perché non più corrispondenti all’ideale promosso dalla contemporaneità, mi sembra invece che si pensi di poter arrivare ad un giudizio ultimo sulle cose. È come se si avesse la certezza che quello che c’è stato in passato sia completamente sbagliato, mentre il presente sia perfettamente (e interamente) giusto“, sottolinea Valagussa.

È essenziale che l’umanità assista e prenda parte a movimenti di contestazione, è proprio da questi che passa la consapevolezza di un cambiamento, sociale o politico, della realtà. “La critica mi permette di tornare indietro, di valutare ed eventualmente di demolire, è la pars destruens – sottolinea lo studioso -, ma il pensiero si è sempre fatto carico anche di costruire nuove forme di realtà e di civiltà“. “Per esempio, siamo nell’epoca dell’emancipazione, fondamentale, dei diritti sessuali. Le nuove istanze si stanno impegnando nella distruzione di vecchi simboli, ma stanno lavorando per costruire una forma nuova? Si stentano a cogliere segnali in questa direzione”. E aggiunge: “Non possiamo illuderci di giungere alla libertà assoluta. L’emancipazione, per definizione, non può essere totale“.

È assolutamente ovvio che un’idea di cambiamento o rilettura del reale cerchi di presentarsi come la migliore, quella maggiormente in grado di rappresentare la comunità dalla quale ha origine: “Da questo punto di vista, entrambi i casi che abbiamo analizzato hanno valenza politica ed è chiaro che nessun modello politico verrà presentato dalla parte che lo sostiene come un tentativo maldestro e imperfetto. E’ quasi inevitabile che ogni proposta politica intenda mimare una sorta di giudizio universale anticipato. Tuttavia, per tornare a Musil, bisogna ammettere che ogni concezione del mondo è sempre e soltanto una soluzione parziale“. Parzialità che, spiega Valagussa, non va intesa quale sinonimo di inadeguatezza: “L’idea di una soluzione parziale consente di ragionare sui limiti costitutivi della propria proposta politica, sia nei riguardi del passato, sia rispetto agli scenari futuri”.

Censurare o addirittura eliminare il passato rischia, poi, di rinchiuderci in un eterno presente polarizzato in due fazioni che difendono l’una l’ideale opposto a quello dell’altra. “La cultura vive di mediazione, se alimento solamente gli eccessi è difficile che si crei quell’amalgama da tutti riconosciuto che chiamiamo ‘cultura’ “, dice Valagussa. “Prendiamo i musei, o le opere d’arte come emblema di una cultura. Si tratta di un inutile patrimonio antiquario o sono parte vivente di quello che siamo? Nel secondo caso, il problema della conservazione nemmeno si pone, io uso questo patrimonio per capire me stesso e il mondo in cui vivo”.

La critica vivifica, ma la censura, l’abbattimento, ancora più che nascondere, sembrano rischiare di tagliare via il passato. Un passato che può essere certamente scomodo o addirittura inaccettabile, ma perché dovremmo considerarlo impensabile? Non è stata proprio la possibilità del pensiero di ritornare su fatti passati a permettere di rileggerli, reinterpretarli e, spesso, condannarli?