La notizia è arrivata nelle prime ore della mattina, quando la città si stava ancora stiracchiando. Daniele De Rossi non è più l’allenatore della Roma. Troppo straziante questo avvio di campionato per poter continuare insieme. Troppe partite ancora da giocare per rischiare di perdere ulteriore terreno dalle altre. È un annuncio tanto clamoroso quanto inaspettato. E non tanto perché recide un legame affettivo tra una tifoseria e una sua bandiera. A sorprendere sono i tempi, i modi, le parole, la stella cometa che si deciderà di seguire da questo momento in poi. Roma e la Roma si confermano entità inquiete, smaniose di costruire un progetto salvo poi iniziare a smantellarlo poco dopo. Un mattone dopo l’altro. Un allenatore dopo l’altro.
In otto mesi il club di Trigoria ha cannibalizzato prima José Mourinho e poi Daniele De Rossi. Due tecnici con un credo calcistico talmente diverso da diventare alternativi, incompatibili. La Roma ha sposato un’idea e la sua esatta negazione. Solo che in entrambi i casi si è ritrovata a dover pescare a mani piene fra i talloncini degli imprevisti. A gennaio, dopo il benservito allo Special One, si era detto che il suo (non) gioco era paludato e inoffensivo, ormai inidoneo a un club che doveva guardare negli occhi il proprio futuro. Così la società aveva provato l’azzardo. Aveva riportato indietro una delle sue leggende e gli aveva affidato la panchina. Una scelta complessa. Perché portava a giudicare un’icona giallorossa non dal suo attaccamento ai colori, ma dai risultati. I primi tempi sono stati esaltanti. La squadra che negli ultimi mesi si era trascinata aveva improvvisamente iniziato a correre. E a vincere. Le tenebre che avevano rabbuiato il percorso in campionato sembravano dissipate. De Rossi era diventato un rabdomante, uno a cui era bastato rimodellare la squadra su una difesa a quattro per infondere una mentalità tutta nuova. E la vittoria scintillante contro il Milan in Europa League lo aveva trasformato da santone in santino.
È stato in quel giorno che la società ha fatto una scelta. Daniele De Rossi da Ostia non sarebbe stato più l’allenatore ad interim, ma la roccia su cui fondare una nuova Roma. L’ufficialità è arrivata soltanto mesi dopo. Contratto di tre anni. Compenso da 2.5 milioni netti a stagione. Era un’investitura. Quello che una volta era stato Capitan futuro ora sarebbe stato il presente della società. Il mercato estivo è stato tormentoso e angosciante. Ma, soprattutto, confuso. Il club che con Mourinho in panchina aveva predicato l’austerità per rispettare il fair play finanziario ha aperto improvvisamente i cordoni. Fra cessioni e risparmi i Friedkin hanno potuto investire un centinaio di milioni. Diciassette giocatori sono andati via e ne sono arrivati 11. Eppure dopo quattro giornate non è poi così certo che la Roma sia più forte della sua versione precedente. Anzi. Da anni i giallorossi devono risolvere il problema del terzino destro titolare. Così hanno seguito Assignon. Per mesi. Poi però hanno deciso di investire prima sul centravanti, su un esterno offensivo dal futuro garantito, su un centrocampista centrale che De Rossi non conosceva neanche.
I soldi erano quasi finiti. Così la Roma si è presentata ai nastri di partenza con Celik e Saud Abdulhamid, il terzino venuto dall’Arabia. Una confusione che neanche gli arrivi di Kone, Hermoso e Hummels sono riusciti a dissolvere. Ferragosto è stato particolarmente crudele con i tifosi (ma anche con l’allenatore). Il talento di Dybala andava sacrificato sull’altare del bilancio. Solo che poi l’argentino ha deciso di restare, di rifiutare i petrodollari, di continuare a far sognare il popolo giallorosso. Una scelta che si è rivelata un problema. Perché prima De Rossi è stato costretto a tenere fuori Dybala nella prima partita. Poi ha dovuto cambiare le sue idee tattiche per fargli posto. E ancora Dahl, arrivato per 4 milioni, è un oggetto misterioso. Dalla difesa a 4 si è passati alla retroguardia a 3. Soulé è stato schierato prima a sinistra, poi a destra, poi è rimasto in panchina. Zalewski, impiegato dal mister nelle prime tre partite, è stato messo fuori rosa per aver rifiutato rinnovo e trasferimento. L’avvio di stagione è stato la conseguenza diretta di questo caos, di questa inarrestabile tendenza a deviare sempre dalla strada tracciata. Sono arrivati il pareggio bruttino contro il Cagliari, la disfatta casalinga contro l’Empoli, il punto in casa della Juve e la beffa al 95’ a Marassi contro il Genoa. Poco. Troppo poco. Al resto ci hanno pensato gli spifferi, le voci fuoriuscite su discussioni false, vere e presunte. Così ieri i Friedkin sono arrivati nella capitale. Non per aggiungere, ma per sottrarre. Da questa mattina Capitan Futuro è il passato. Con buona pace del progetto triennale. Ma fino a quando la Roma non diventerà una grande club, difficilmente riuscirà a diventare una grande squadra.