La sentenza della Corte d’Appello di Milano, che ha confermato l’assoluzione dell’ex sindacalista della Cisl finito sul banco degli imputati con l’accusa di violenza sessuale nei confronti di una hostess che nel 2018 si era rivolta a lui per una vertenza, ha generato un acceso dibattito sulla definizione di consenso e sulla tempistica della reazione della vittima. Il caso ruota attorno al fatto che la hostess avrebbe espresso il suo dissenso dopo circa 20 secondi dall’inizio del contatto indesiderato, un periodo di tempo che, secondo i giudici, non è sufficiente a dimostrare l’assenza di consenso.
Questa decisione ci riporta indietro di decenni contraddicendo l’orientamento della Corte di Cassazione, che da oltre dieci anni ritiene configurabile il reato di violenza sessuale in caso di atti sessuali eseguiti in modo improvviso, furtivo e senza il preventivo accertamento del consenso della donna. Tali condotte, infatti, devono essere trattate e giudicate come reati di violenza sessuale.
Pertanto la motivazione, che ha portato alla conferma dell’assoluzione, solleva questioni importanti sul modo in cui il consenso è interpretato nel nostro ordinamento giuridico, in particolare alla luce dell’art. 609 bis del codice penale.
L’art. 609 bis c.p. definisce il reato di violenza sessuale come un atto che viene compiuto “mediante violenza, minaccia o abuso di autorità”, o senza il consenso della persona offesa. Tuttavia, il concetto di consenso, così come emerge dalla giurisprudenza attuale, sembra ancora essere interpretato in maniera ambigua e soggettiva, lasciando spazio a interpretazioni che possono variare da caso a caso. L’assenza di una definizione chiara e dettagliata del consenso nel nostro codice penale crea incertezze che rischiano di far dipendere l’esito dei processi da valutazioni personali o da contesti specifici, anziché da una norma ben delineata.
È evidente che la questione del “tempo di reazione” della vittima non dovrebbe essere un parametro decisivo per stabilire l’assenza di consenso. Il fatto che una persona non riesca a reagire immediatamente a un atto sessuale non significa necessariamente che abbia acconsentito; le dinamiche emotive e psicologiche che entrano in gioco in situazioni di violenza o sopraffazione possono impedire una reazione pronta e chiara. L’assenza di consenso dovrebbe essere valutata non sulla base di una tempistica rigida, ma considerando il contesto complessivo, le circostanze emotive e la posizione di preminenza o autorità dell’autore del fatto.
Alla luce di questi sviluppi, appare non più rinviabile un intervento legislativo che introduca una definizione chiara e precisa di “consenso” all’interno dell’art. 609 bis c.p., come già avvenuto in altri ordinamenti, ad esempio nel Regno Unito, dove il consenso è definito in modo più articolato e include il principio che deve essere dato “in modo libero e volontario”. In particolare, si dovrebbe chiarire che il consenso deve essere espresso in modo inequivocabile e può essere revocato in qualsiasi momento, indipendentemente dalla reazione immediata della vittima.
Una riforma in tal senso potrebbe evitare che casi come quello in questione siano risolti sulla base di valutazioni temporali eccessivamente rigide e potenzialmente fuorvianti, garantendo maggiore protezione alle vittime di violenza sessuale e maggiore coerenza nella giurisprudenza.