Calcio

Addio a Totò Schillaci, il “terrone” che rischiò di unire l’Italia: prima delle notti magiche fu vittima dei pregiudizi più beceri

Niente è più labile del concetto di appartenenza. Perché dopo una vita intera passata a cercare di unire un Paese ci si può anche ritrovare imprigionati nel ruolo di ospite. Ne sa qualcosa Salvatore ‘Totò’ Schillaci, l’uomo sbucato dal nulla che per un mese esatto si era illuso di poter cucire insieme un’Italia tagliata ancora a metà con l’accetta. Per molto tempo Nord e Sud hanno rappresentato realtà inconciliabili, entità alternative, modelli destinati a escludersi vicendevolmente. Una storia triste e dolorosa. Perché scritta attraverso cicatrici non sempre visibili agli occhi. L’incipit della sua vita da romanzo viene scritto al Cep di Palermo, il Centro di Espansione Periferica. Case popolari su case popolari. Esattamente come le hanno tirate su in tutta Italia fra la fine degli anni Quaranta e gli anni Sessanta.

“La mia vita è stata difficile – ha raccontato – sono nato di sette mesi, i nonni mi scaldavano con bottiglie d’acqua calda“. La sua condizione è la povertà, ma la sua vita non è misera. Tutt’altro. In seconda media lascia la scuola. Una decisione neanche troppo sofferta, visto che il più delle volte non entrava nemmeno in aula. “Ho fatto il panettiere, il gommista, l’ambulante, ho consegnato il vino, vendevo frutta – ha raccontato in un’intervista ad Angelo Carotenuto su Repubblica – Volevo dei soldi in tasca, il calcio è stato la mia camera d’aria. Giocavo per ore col Super Tele, il pallone leggero. Nemmeno Pelé ci fa tre palleggi col Super Tele”.

I pomeriggi passano via tutti diversamente identici. Con gli altri ragazzi del quartiere posano due pietre sul cemento per segnare le porte. Poi mettono cinquemila lire a testa. La squadra che vince si porta via tutto. “Era una bella cifra – ricorda – soprattutto per noi che eravamo poveri“. Per qualche tempo tutto appare consequenziale, quasi ineluttabile per uno del suo talento. Totò entra prima all’Amat, una squadretta locale legata alla municipalizzata dei trasporti. Poi arriva la chiamata del Messina, che trascina dalla C2 alla Serie B, diventando anche il capocannoniere del torneo cadetto. Infine viene scelto da Boniperti come nuovo attaccante della Juventus. Il figlio del proletariato urbano chiamato a trascinare la squadra dei padroni del vapore. Sembra una parabola perfetta. Soprattutto per un certo tipo di narrazione sportiva sempre alla ricerca del riscatto, del pallone di pezza, dell’emarginato che diventa eroe. È una regola che si applica a tutti. Tranne che a Schillaci. Perché per anni per Totò è valso l’esatto contrario. Le sue origini modeste non sono diventate simbolo di redenzione, ma un peccato originale impossibile da espiare.

A Torino Salvatore sembra un intruso, viene visto con sospetto. Platini dice pubblicamente di non conoscerlo. Bettega pensa inizialmente di mandarlo al Toro per provare a prendere Luiz Antonio da Costa detto Müller. Il club, che non ama il suo accento e il suo modo scombiccherato di parlare, lo affida a un’insegnante di italiano. Dura appena un paio di mesi. Poi la professoressa alza bandiera bianca: “Questo qui non apprende niente“. Ma, soprattutto, Schillaci viene continuamente chiamato “Terrone“. È una parola che riapre ferite che sembravano essersi ormai cauterizzate. E che racconta del passato prossimo di una città in cui da Porta San Paolo a Mirafiori sbucavano i cartelli con scritto “Non si affitta casa ai meridionali”. Sembra quasi di ascoltare le parole che aprono “Fata Morgana“, il documentario sui migranti siciliani firmato da Lino del Fra nel 1962: “Il terrone viene dalla terra, ha atteso troppo a lungo che il miracolo economico andasse a trovarlo e alla fine si è mosso con tutto quello che ha, con tutta la casa in braccio si è mosso a incontrare il miracolo nelle sue stesse città“.

Per molto tempo Schillaci è stato l’antieroe del calcio italiano. “Quando mi vollero a Torino, la prospettiva era quella di stare in panchina, con Casiraghi e un attaccante straniero in campo – dice all’inizio della sua avventura in bianconero – Invece l’attaccante straniero sono diventato io“. È una frase che racconta una verità. E lo fa in modo involontario.

Totò si ritrova come sradicato, condannato a giocare sempre in terra ostile e straniera. Non c’è stadio italiano in cui non gli rovescino addosso un immondezzaio. Soprattutto dopo che un giornale pubblica una notizia particolare. Un familiare di Salvatore sarebbe stato fermato dalla polizia. E a bordo della sua auto sarebbero stati trovati degli pneumatici rubati. Il fatto è un brodo di giuggiole per i tifosi avversari. “Ruba le gomme, Schillaci ruba le gomme”, gridano. “Sai chi è quel giocatore che ruba le gomme alle Alfa 33? Totò, Totò Schillaci”, urlano. In una partita contro la Fiorentina qualcuno porta un copertone al Franchi. Alcuni tifosi delle altre squadre si fanno stampare una maglietta. È bianca e sul davanti c’è stampata la scritta: “Schillaci gommista”, con tanto di mascotte della Michelin. Costa 20mila lire, ma trattando un po’ si può portare via per 12mila. Va avanti così per un pezzo. Tanto al Nord quanto al Sud.

Un giorno durante una partita in casa del Bari il pubblico del San Nicola non si ferma un attimo. “Ruba le gomme, Schillaci ruba le gomme”. A un certo punto Salvatore segna. La rabbia che si gonfiava da tempo nel suo stomaco si trasforma in bile. Totò corre verso la curva con il pugno alzato. Non è un gesto violento, ma basta comunque a far arrabbiare i baresi. “Ho reagito, anzi, esultato, ma non in maniera volgare – dice Schillaci amareggiato – Volevo solo difendere la mia dignità. Io le gomme non le rubo, forse lo fanno gli altri. Guadagno 500 milioni all’anno e non ho bisogno di rubare. Mi avvilisce che proprio la gente del Sud abbia preso di mira uno di loro”. E ancora: “Il discorso calcio non c’entra nulla con i problemi di mio fratello, ma la gente mi sottopone ad un linciaggio continuo. Di tutto questo posso ringraziare un giornale di Palermo, che ha messo nei guai un ragazzo del Sud che sta facendosi onore nel grande calcio”. Per qualcuno Schillaci diventa una specie di incarnazione del Meridione. Solo che a questa rappresentanza viene dato un valore spregiativo. Totò è il “Terrone”. Anzi, il “Terrone di merda“. Glielo scrivono perfino sotto la casa dove abita in via Filadelfia, vicino allo Stadio Comunale.

Il 3 aprile del 1992 i giornali italiani si occupano di un fatto curioso. Un’anziana di Gardolo sta guardando una telenovela con il volume al massimo. Il suo dirimpettaio, un professore laziale che si era trasferito in Trentino per lavoro, punta sull’occhio per occhio e alza il volume. Ne viene fuori una litigata furibonda dove il professore si sente scagliare contro “li mortacci vostra”, “rompicoglioni” e, soprattutto, “terrone”. Finisce a carte bollate. Fino a quando il pretore di Trento non emana la sua sentenza. Pur avendo talvolta una connotazione spregiativa, quel termine non produce una “lesione dell’onore e del decoro”. Il dibattito divampa. Il Corriere della Sera cerca pareri altamente qualificati. “Nel nostro Paese stanno riemergendo cose che sembravano ormai sepolte: razzismo e indifferenza. Il solco che divide l’Italia è sempre più profondo”, dice lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo. “Non c’è mai un intento amichevole dietro quell’epiteto”, afferma De Crescenzo. Ma non basta. Serve il parere del terrone per eccellenza. Serve il parere di Schillaci. “Io non me la prendo, non mi sono mai offeso“, giura Totò. E invece quella parola lo fa impazzire. Perché diventa per lui una specie di carta moschicida da cui è impossibile liberarsi. Anni più tardi, nel 1997, Aldo Giovanni e Giacomo conquistano l’Italia con Tre Uomini e una Gamba. Nel film c’è una scena che diventa cult. Due lombardi sottopongono il conte Dracula all’inganno della “cadrega”. Poi trovano un autografo: «A Dracula, con affetto, Totò Schillaci”. “Schillaci? Ma chi l’è sto Schillaci?”, dice Giacomo. “L’è il Gran Visir di tuc i terùn!”, esclama Giovanni.

Salvatore è stato il breviario di tutti i peccati degli italiani. Se ne accorgerà il 2 agosto del 1993. Gigi Lentini ha un incidente con la sua Porsche gialla. Aveva forato una gomma e si era fatto mettere un ruotino dal benzinaio. Solo che non aveva smesso di correre. Il calciatore viene sbalzato via, rompe il parabrezza, è vivo per miracolo. La stampa trova però più interessante un altro dettaglio. Lentini, infatti, doveva incontrarsi con Rita Bonaccorso. Che poi era la moglie di Schillaci. I due erano in crisi ormai da tempo e si stavano per lasciare. Tanto che Boniperti in persona si era presentato a casa loro per cercare di salvare quel matrimonio. Ai giornali non interessa. In un Paese che ama spiare gli altri dal buco della serratura quella storia fa notizia. Così viene ripresa ed eternata. Ancora e ancora e ancora. Fino allo sfinimento. “Prima mi chiamavano terrone – dice – ora mi urlano anche cornuto“.

Totò l’anti-italiano, dunque. Ma anche l’anti-eroe che per un mese ha rischiato di unire davvero il Paese. Erano le notti magiche e Schillaci si era travestito da uomo della provvidenza. Gol all’Austria. Gol alla Cecoslovacchia. Gol all’Uruguay. Gol all’Irlanda. L’Olimpico aveva iniziato a urlare il suo nome. Ma il motivetto era cambiato. “Sai chi è quel giocatore che gioca al calcio meglio di Pelè? Totò, Totò Schillaci”. Un idillio così perfetto da non poter essere duraturo. La sua vita da eterno straniero si completa in semifinale. Si gioca a Napoli, la casa di Maradona che per novanta minuti diventa la casa dell’Argentina. Totò segna ancora. Il terrone diventa il “Salvatore della patria“. Poi arrivano l’uscita a vuoto di Zenga e la maledizione dei rigori. I suoi occhi spiritati si allagano di lacrime. Il sogno azzurro diventa incubo in un secondo. Schillaci non è più una speranza, ma un’illusione. Una circostanza che in molti gli hanno rinfacciato. Senza un briciolo di gratitudine.