La fine dell’estate 2024 è stata sconvolta da due tragici episodi di cronaca nera: l’omicidio della giovane Sharon Verzeni e la strage familiare di Paderno Dugnano. Manca il movente in entrambi i casi, ovvero un insieme di motivazioni forti alla base della furia omicida. Si tratta di gesti apparentemente gratuiti, dettati – così pare – da una condizione di estrema aridità affettiva e spirituale.
Anche stavolta è stato scandagliato il contesto familiare per cercare lì l’origine del male, e la battaglia delle opinioni si è, in certi casi, nuovamente polarizzata tra rimpianto nostalgico di modelli passati e la critica della famiglia tradizionale in quanto tale. Ma sul banco degli imputati sono finiti anche i social media, che certamente impattano negativamente sulle coscienze dei più giovani, alimentando stati più o meno preesistenti di ansia, depressione, frustrazione, ritiro e rancore sociale.
Ma forse al fondo di tutto, accanto ovviamente a una situazione di grave disagio individuale, c’è “l’ospite più inquietante”, ovvero il nichilismo, lo spettro che si aggira in maniera subdola tra le rovine della civiltà liberal-capitalistica occidentale. Si potrebbe dunque affermare che il movente nascosto di entrambi i delitti – ciò che spiega le ragioni profonde dei fatti senza in alcun modo attenuare le responsabilità degli esecutori – è proprio il nulla, l’assenza cioè di una cornice appagante di significati, orientamenti e appartenenze cui connettere sentimentalmente la propria esistenza.
D’altronde, con riferimento al delitto di Paderno Dugnano, le parole pronunziate dal giovane omicida sembrano confermare tale diagnosi: questi ha confessato di provare da sempre un senso di “estraneità” a tutto, per riempire il quale aveva anche pensato di arruolarsi con le forze armate ucraine, e questo poco prima di decidere di dirottare il suo malessere nella spirale tragica della barbarie stragista.
Il suo, almeno così mi sembra di poter sostenere, era uno stato di sonnambulismo anaffettivo, di spersonalizzazione alienante, di straniamento angoscioso. Ma sonnambulismo, disorientamento e assuefazione distratta – mi sia consentito l’azzardo di un parallelismo estremo – sono anche le tonalità emotive con le quali sempre più spesso assorbiamo le immagini del grado zero di umanità, verità e bellezza che ovunque ci circondano, assimilate con cinica indifferenza o con disperata impotenza.
Filippo Tommaso Marinetti glorificava la guerra come “sola igiene del mondo”, mentre Hegel, quasi un secolo prima, attribuiva alla stessa non solo un carattere di necessità e inevitabilità, ma anche un elemento di rigenerazione: come “il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole”, così la guerra protegge i popoli dal disfacimento etico, estetico e sociale al quale li ridurrebbe una pace durevole o perpetua.
Ebbene, se la società nel suo complesso intende contrastare queste previsioni sull’ineluttabilità della “catastrofe rifondativa” e provare a riempire il deserto di significati e obiettivi generali che attanaglia l’immaginario diffuso (soprattutto giovanile), oscillante come un pendolo tra le ristrettezze del quotidiano particolare e la sensazione di una decadenza senza fine, con in mezzo intervalli fugaci di piacere effimero, deve adoperarsi per generare e diffondere una nuova “corrente calda” di emozioni e forme di identificazione collettiva, in grado di espandere il senso positivo di un nuovo legame sociale, di una nuova sfida mobilitante, contro le passioni e gli esempi “tristi” che impoveriscono la vita e azzerano qualsiasi possibilità di un’esperienza in comune più elevata.
Riempire il vuoto: questo il fine di una nuova, necessaria battaglia insieme politica e spirituale, che richiede spirito creativo, cuore generoso e pensiero potente; tanto in alto quanto in basso (a tal proposito, una provocazione: che non sia questo il tempo per un modello progressivo di “Cesare romano con l’anima di Cristo” compatibile con una nuova stagione di risveglio popolare?).