Pubblichiamo un intervento di Matteo Jessoula, ordinario di Scienze Politiche all’università degli Studi di Milano e direttore del dottorato in Political Studies presso il dipartimento di Scienze Sociali e Politiche.

Da circa un decennio i governi non riescono a individuare una soluzione efficace e duratura per il (pre-)pensionamento dei lavoratori prossimi alla quiescenza, licenziando una serie di interventi distributivi annuali che comportano una dannosa e persistente incertezza delle regole previdenziali. Tantomeno essi sono stati capaci di disegnare una riforma organica in grado di assicurare un futuro pensionistico adeguato alle giovani generazioni. Tale incapacità deriva in ampia parte dall’“ingessatura” del dibattito pensionistico entro il quadro cognitivo-normativo plasmato con le grandi riforme degli anni ’90. Una cornice rigida, di impianto marcatamente neoliberista, costruita su 4 miti fondamentali che è opportuno mettere a fuoco.

Mito n.1: l’equità del contributivo. “Prenderai sotto forma di pensione quanto hai versato durante la carriera lavorativa” è il motto retorico che promuove l’idea di equità iscritta nel contributivo, il metodo di calcolo delle pensioni oggi prevalente (nella forma mista o pura) per la maggior parte dei pensionandi. In realtà, la corrispondenza tra contributi complessivamente versati e prestazioni ricevute si verifica solo per quei lavoratori che abbiano un’aspettativa di vita, al momento del pensionamento, pari al valore medio tra la popolazione. Nei fatti, invece, il metodo contributivo produce effetti fortemente regressivi a svantaggio dei gruppi e delle categorie con minore longevità: gli individui con più basso titolo di studio, che iniziano presto a lavorare, generalmente occupati in attività manuali e/o più gravose e con livelli di reddito più modesti, per i quali l’aspettativa di vita è in Italia di 3-5 anni inferiore rispetto ai gruppi più avvantaggiati.

Mito n. 2: le pensioni dei lavoratori vanno finanziate solo tramite contributi sociali. Intimamente legata al mito della corrispondenza tra contributi e prestazioni a livello individuale è l’idea che – con il passaggio al contributivo – la spesa per le pensioni dei lavoratori debba essere integralmente sostenuta dai contributi previdenziali: in altre parole, il sistema pensionistico dovrebbe essere in equilibrio finanziario e “autosufficiente”, senza gravare sulla finanza pubblica. Caso italiano e analisi comparata mostrano la natura “mitologica” di tale narrazione. In Italia, la quota a carico dei contributi sociali è diminuita dal 71% nel 2005 al 65% nel 2015, ma non si tratta di un caso isolato: i dati elaborati dallo European Social Policy Network ci dicono che tale tendenza è visibile in diversi paesi europei e soprattutto che solo in tre paesi (Cechia, Ungheria e Lettonia) i contributi sociali rappresentano oltre il 70% delle entrate per le prestazioni di vecchiaia, mentre la quota scende al 70% in Svezia, al 66% in Germania, al 59% e 42% in Olanda e Belgio. Insomma, mentre si ripete il ritornello che le pensioni devono essere finanziate soltanto tramite contributi sociali, la quota a carico della fiscalità generale è elevata in molti paesi europei e in Italia è aumentata dal 17,7% nel 2005 al 22,4% nel 2015.

Corollario ai due miti precedenti è il Mito n.3, secondo cui il contributivo funziona come “pilota automatico” che protegge dal “rischio politico”: esso mantiene cioè la spesa sotto controllo senza richiedere riforme sottrattive, rischiose e di difficile attuazione. Sul piano meramente economico, è vero che il contributivo include due potenti stabilizzatori automatici della spesa che “immunizzano” il sistema pensionistico rispetto al rischio demografico ed economico (bassa crescita). La credenza secondo cui, con l’entrata a regime del contributivo, i parametri cruciali delle pensioni sarebbero affidati a uno strumento tecnico-economico sottovaluta però drammaticamente l’importanza delle pensioni nella sfera politica. In quanto “diritti sociali” non è infatti opportuno che esse possano essere regolate in isolamento dal sistema di rappresentanza politica e intermediazione degli interessi. Ma non è nemmeno realistico: il “pilota automatico” del contributivo può infatti essere sempre disattivato dal decisore politico – al fine di bilanciare le esigenze della sostenibilità economico-finanziaria con gli imperativi dell’adeguatezza sociale – come già avvenuto nel 2014 quando si decise di sospendere il meccanismo di rivalutazione dei contributi, che per la prima volta avrebbe comportato una rivalutazione negativa degli stessi a danno del livello delle prestazioni future.

Più recente è il Mito n. 4: l’aumento dell’aspettativa di vita può (deve!) tradursi in un pari aumento dell’età pensionabile al fine disinnescare i rischi connessi all’invecchiamento demografico – l’aspettativa di vita alla nascita è infatti aumentata dai 77 anni del 1989 a 81,8 nel 2009 e 83,6 nel 2019, mentre negli ultimi anni si è registrata una diminuzione a 82,3 (2020) e 82,7 anni (2021). La trasposizione integrale di tali aumenti in incrementi dell’età pensionabile è però problematica per almeno tre ragioni. Primo, i differenziali nell’aspettativa di vita delineati sopra. Secondo, così come la longevità non varia in modo casuale ma è soggetta a fattori di natura socio-economica e professionale, anche l’incremento di questa è condizionato dagli stessi fattori, per cui l’aspettativa di vita aumenta in modo minore tra i ceti svantaggiati. Terzo, gli anni di vita attesi in buona salute a 65 anni sono in Italia circa la metà (10,1) rispetto all’aspettativa di vita (20,6 anni) e soprattutto i primi mostrano un quadro di sostanziale stabilità rispetto all’incremento della seconda.

In campo pensionistico, affrontare il “trilemma dell’adeguatezza” – cioè l’efficiente ed equa combinazione di i) prevenzione della povertà nella vecchiaia, ii) mantenimento di un livello adeguato di reddito per i lavoratori pensionati, iii) ad età pensionabili congrue e sostenibili – richiede di superare i “miti” previdenziali e ri-disegnare un modello pensionistico in grado di neutralizzare gli effetti regressivi prodotti dalle riforme Amato, Dini e Monti-Fornero.

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